Troppe foreste, montagne a rischio
Domenica 22 Novembre 2009 alle 08:25 | 1 commenti
Articolo pubblicato sul n. 172 di VicenzaPiù, da ieri in edicola e da oggi in distribuzione in diversi punti della città elencati nel box a destra, da cui è pure scaricabile la versione in pdf.
Geografi, antropologi. montanari e guardie forestali ne discutono da anni. Tutti gli altri, cioè chi in montagna ci va solo per un weekend all'aria aperta o per qualche settimana di vacanza, probabilmente non se n'è nemmeno accorto. Ma nelle nostre montagne, dal Pasubio al Grappa (come del resto sta avvenendo in tutto l'arco alpino), è in corso una trasformazione epocale, che potrebbe compromettere un patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico antico di secoli. E per una volta non stiamo parlando dell'avanzata del cemento o del proliferare di seconde case. In questo caso, infatti, l'insidia viene dall'avanzare del bosco. Anzi, della foresta, che si sta velocemente riprendendo spazi e territori. Bene, verrebbe da dire, ma la questione è ben più complessa. Perché l'esplosione delle foreste è la diretta conseguenza dell'abbandono. E il risultato non è semplicemente una natura incontaminata, ma il più delle volte una "boscaglia impraticabile", come si legge sul sito di Geograficamente, associazione nata al dipartimento di Geografia dell'università di Padova e che segue con un'attenzione particolare le tematiche relative all'ambiente e al territorio.Â
Le cifre
Cosa sta succedendo non è difficile da spiegare. Le zone di montagna, in particolare quelle di media montagna, erano caratterizzate da un'economia agropastorale faticosa e, nella maggior parte di casi, poco redditizia. Con il boom economico del dopoguerra, paesi, contrade e frazioni si sono svuotati, campi, orti e pascoli sono stati lasciati a loro stessi, e la vegetazione ha ricominciato a guadagnare terreno. Nel Vicentino lo si può vedere ovunque: nelle malghe del Pasubio ormai diroccate, tra i pascoli del Novegno, un tempo famosi per i formaggi e oggi frequentati solo da qualche decina di mucche, nella valli di Posina e Laghi, dove terrazzamenti e contrade sono stati letteralmente mangiati dal bosco, nel canale di Brenta. E anche nell'altopiano di Asiago. I dati sono impressionanti. In Italia, nel 2005, c'erano quasi due milioni di ettari di foreste in più rispetto a vent'anni prima. Nell'Altopiano, che pure è una delle zone d'Italia dove l'urbanizzazione è cresciuta in modo più vertiginoso (negli ultimi cinquant'anni il numero di case è quasi quadruplicato, passando da 8.216 a 28.398, e solo negli ultimi 35 anni sono state costruite abitazioni su un milione di metri quadrati di terreno, senza contare strade, marciapiedi e altre opere di urbanizzazione), la copertura forestale interessa oggi i due terzi del paesaggio. Negli ultimi quarant'anni, il bosco ha guadagnato 7mila ettari di terreno, cioè 70 milioni di metri quadri, ben più dello sviluppo edilizio. A Rotzo il 90 per cento del paesaggio è chiuso, cioè dominato dal bosco o dalla foresta. A Lusiana, Roana, Foza, Gallio e Conco si viaggia oltre il 75 per cento.
La rivoluzione
"È il processo di trasformazione più imponente in corso nel mondo occidentale - ci spiega Mauro Varotto, docente di Geografia a Padova e membro del comitato scientifico del Cai -. Nemmeno l'urbanizzazione può competere, a livello quantitativo. Va chiarito, però, che l'avanzamento della vegetazione non è l'avanzamento del bosco: il bosco è un luogo curato dall'uomo, questo invece è un processo spontaneo che deriva dall'abbandono". Gli addetti ai lavori parlano di riforestazione. E nella differenza apparentemente marginale tra bosco e foresta sta il nocciolo del problema. L'avanzata della natura, infatti, non è necessariamente un fattore positivo. "È un modo di pensare tipicamente urbano, che nasce con Rousseau, o se vogliamo banalizzare che è stato diffuso da prodotti come i cartoni di Heidi, quello che vede la natura come acriticamente positiva e l'uomo come un fattore impattante - continua Varotto -. Quello a cui assistiamo invece è una estremizzazione degli habitat: da un lato c'è una concentrazione delle attività umane, con una artificializzazione sempre più forte dell'ambiente, dall'altra il ritorno del selvatico". E non si deve nemmeno scivolare nel rischio di vedere nell'avanzare degli alberi un pretesto per nuove urbanizzazioni. Come dire, costruite pure, tanto c'è bosco. "È come dire che possiamo inquinare di più tanto la domenica andiamo in montagna a respirare aria pulita. Non è equilibrio, è la somma di due contrari".
Natura più povera
A farne le spese di questa estremizzazione degli ambienti è quel paesaggio intermedio fatto di prati, orti, pascoli, terrazzamenti e boschi ben curati che in realtà era il vero elemento distintivo delle montagne. Un paesaggio in cui l'intervento dell'uomo era fondamentale, e che anzi trovava la sua ricchezza proprio nell'equilibrio tra attività umane e natura. Come ha scritto Paolo Rumiz su La Repubblica del 20 settembre, le praterie del Grappa e le distese di pascoli di Asiago sono meraviglie artificiali frutto di una guerra senza quartiere contro la sterpaglia. "In termini culturali questa è una perdita secca - aggiunge ancora Varotto -. Perdiamo un patrimonio fatto di paesaggio, ma anche di conoscenze, di pratiche e di capacità di gestire questi territori. Chi è capace, oggi, di seguire la manutenzione di un muretto a secco? Ma anche in termini ambientali, la maggior naturalità di un ambiente non significa tout court maggior valore naturalistico. Il valore di un ambiente è dato dalla sua ricchezza di specie e di ambienti, e la riforestazione provoca spesso una semplificazione". Ad alta quota si ha così il moltiplicarsi dei mughi; più in basso è tutto un rigoglio di acacie e altre piante semi-infestanti.
Vipere e alluvioni
"Con l'infittirsi degli alberi e l'abbandono delle terre un tempo coltivate, i luoghi diventano sempre più selvaggi - scriveva nel 1998 Mario Rigoni Stern -. Non si va più a raccogliere la legna e l'abbandono fa crescere il sottobosco, così aumentano le vipere, che lì trovano in abbondanza il loro cibo preferito, i topi, ma aumentano anche le volpi, le donnole, le faine e gli uccelli rapaci. Luoghi così inselvatichiti non sono buoni nemmeno da funghi; i sentieri si inerbano e spariscono tra rovi e spini. Anche ai piedi delle montagne, dove queste si raccordano con le colline prima della pianura, dilagano le infestanti robinie, e così quei luoghi diventano impraticabili".
Le conseguenze si avvertono poi anche a livello pratico, ad esempio sul rischio idrogeologico. Il mantenimento di sentieri, terrazzamenti, coltivi, canali e boschi era un'assicurazione, per quanto piccola, contro frane e alluvioni. Con la montagna lasciata a se stesse, i rischi derivanti da questo tipo di fenomeni crescono. Anche se in pochi, almeno finora, sembrano essersene preoccupati.
Le iniziative
Qualcosa, negli ultimi anni, comincia a muoversi. L'ultimo piano di sviluppo rurale promosso dall'Unione Europea distribuisce incentivi a chi tutela i paesaggi rurali, segno che sta maturando un approccio più complesso. Anche a livello locale, si registrano segnali di un ritorno alla montagna. A Valstagna c'è un interessante progetto per il recupero delle terrazze, sul Tretto c'era una cooperativa che gestiva in modo naturale una piccola mandria in cambio della sottoscrizione di una specie di "buoni ordinari bovini", un po' ovunque ci sono persone che provano a riprendere coltivazione e allevamento, con alterne fortune. "Ci vorrebbero delle facilitazioni - conclude Varotto -, che non vuol dire necessariamente esborso di denaro pubblico. Pensiamo ad esempio a quanto costano i danni provocati da frane e smottamenti, e a quanto ci costerebbero incentivi per prevenirli. Ma nessuno mette mai a confronto queste due voci di bilancio. Invece, anche dal punto di vista del paesaggio, meglio il versante di una valle coltivato a terrazze o protetto da una rete paramassi?".
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