Quotidiano |

Giorgio Albertazzi fascista dimenticato? Langella: "ha fatto rastrellamenti nel vicentino". La storica Residori: "blak-out nei ricordi vicentini"

Di Edoardo Andrein Lunedi 30 Maggio 2016 alle 02:02 | 3 commenti

ArticleImage

La morte dell'attore Giorgio Albertazzi a 92 anni viene celebrata in questi giorni con tanti elogi sulle paginate di giornali e mega-servizi televisivi e radiofonici. Una voce fuori dal coro è il vicentino Giorgio Langella, segretario del PCdI Veneto: "Anche se tutti lo ricordano come "grande attore" e ne tessono le lodi, è bene sapere chi fosse realmente Albertazzi. Anche Quirino Traforti raccontava che l'artista teatrale toscano (come lo definiva lui) faceva parte delle brigate di fascisti che avevano fatto i rastrellamenti nel vicentino, compreso quello della Piana".

Sonia Residori, storica e componente del direttivo dell’ISTREVI “Ettore Gallo”, nell’orazione ufficiale del 70° anniversario del rastrellamento del Grappa del 24 settembre 2014 ricordava che:

"Giorgio Albertazzi ha minimizzato tutta la sua partecipazione di ufficiale volontario alla repubblica di Salò, con una frase, ormai molto nota: «Io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Nel suo romanzo autobiografico, quando si tratta di raccontare il soggiorno vicentino della legione Tagliamento, il filo della memoria s’interrompe con un blak-out".

Di seguito pubblichiamo integralmente la relazione di Residori che l'Anpi ricorda con questa premessa:

"Una relazione che ha fatto dimenticare per un momento, le tante assenze di una ricorrenza che dovrebbe essere per l’Anpi e per la popolazione della pedemontana una giornata dedicata alla memoria del sacrificio dei tanti partigiani trucidati. Il sindaco di Crespano, Rampin Annalisa (non vuole essere chiamata “sindaca”) ha sottolineato anche lei la delusione per una giornata che avrebbe dovuto essere ben diversa da come è stata. Per finire il quadro deludente c’era perfino un banchetto di una sezione dell’Anpi che vendeva libri, facendo della memoria semplice mercimonio. E la memoria dei nostri partigiani non merita queste giornate".

Buongiorno a tutti, alle cittadine e ai cittadini presenti, ai rappresentanti delle associazioni partigiane e dei reduci, ai signori Sindaci e alle autorità di tutti i comuni oggi qui intervenuti.
Ringrazio prima di tutto il prof. Vittorio Andolfato, presidente dell’Associazione 26 settembre per avermi invitata a ricordare, in questa celebrazione, quello che è stato uno dei momenti più terribili della Resistenza vicentina e italiana, il rastrellamento del Grappa.
Nell’estate del 1944, il massiccio del Grappa, il “Monte sacro” degli italiani, rappresentava una specie di lembo di terra liberata, una sorta di zona franca, per antifascisti, renitenti e disertori, per i giovani che non intendevano aderire alla Rsi e collaborare con l’occupante tedesco.
Anche per gli ex prigionieri alleati, fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre, il Grappa rappresentava il territorio della salvezza vuoi per la presenza delle brigate partigiane nelle quali in molti si arruolarono, vuoi perché costituiva una tappa importante nel loro lungo viaggio verso la Svizzera.
Tra il 20 e il 21 settembre 1944, ingenti forze militari tedesche portarono l’attacco alle formazioni partigiane che presidiavano il massiccio del Grappa. Le forze della Resistenza ebbero un numero esiguo di perdite, ma non disponendo di armi adeguate e neppure di munizioni sufficienti, dopo un breve tentativo per contrastare il nemico, dovettero abbandonare il terreno. Alle ore 13 del 21 settembre 1944 il Comando partigiano diramò alle formazioni l’inevitabile “si salvi chi può”.
Gli altri giorni, quelli che vanno dal 22 fino alle prime ore del 29 settembre, furono caratterizzati dalla distruzione del territorio e delle case da parte dei rastrellatori, ma soprattutto dalla caccia all’uomo condotta con ogni mezzo. La maggior parte dei partigiani, infatti, era riuscita a sganciarsi e, superando i posti di blocco disposti da centinaia di fascisti italiani attorno al massiccio, a trovare un nascondiglio o a tornare a casa.
Con un piano diabolico il Comando tedesco indusse i genitori, gli amici e i parenti a far presentare i ragazzi partigiani promettendo loro salva la vita. Purtroppo, come cinicamente ebbe a dire l’ex federale Passuello, «in tempo di guerra la parola d’onore non vale nulla», e la promessa era in realtà un inganno.
Per alcuni giorni tutti i paesi della fascia pedemontana del Grappa divennero un grande patibolo, nel quale si susseguirono fucilazioni ai lati delle strade e all’interno della caserma Reatto e impiccagioni di giovani uomini ai pali della luce, agli alberi, ai poggioli delle case.
Il massacro terminò nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, con l’eccidio avvenuto al quadrivio di Caselle d’Asolo, con l’uccisione degli ultimi partigiani condannati a morte, i 51 uomini ai quali il vescovo, mons. Zinato, credeva di aver salvato la vita con il suo intervento personale e dei quali non è mai stato trovato il corpo.
I reparti che portarono l’attacco al massiccio del Grappa, scontrandosi con i partigiani, erano esclusivamente tedeschi perché ai fascisti italiani collaboratori era riservata in genere una funzione di supporto. Solo la 1a legione d’assalto Tagliamento ebbe il “privilegio” di combattere al loro fianco: si trattava di un reparto di italiani che avevano giurato fedeltà a Hitler e che erano agli ordini esclusivi del Comando SS in Italia, una delle «migliori unità» naziste del gen. Wolff.
Di tale reparto, che si distinse per crudeltà anche in altre zone del Paese, fecero parte alcuni personaggi che divennero poi famosi in varia misura nell’Italia democratica. Giorgio Albertazzi, celebrato e applaudito attore di teatro; Augusto Ceracchini, considerato il «padre delle arti marziali» in Italia; Carlo Mazzantini, padre della più conosciuta Margaret, ma scrittore di successo egli stesso; Giose Rimanelli romanziere, professore emerito d’Italiano e letteratura comparata negli Stati Uniti. Tutti e quattro hanno lasciato le loro memorie ai posteri raccontando diffusamente della loro esperienza di volontari di Salò, ma facendo scendere un pesante silenzio su ciò che successe nel Vicentino, in particolare sul Grappa come se la legione Tagliamento non fosse mai stata nel nostro territorio. Dal momento che i documenti del reparto erano stati distrutti, queste loro memorie sono state storia per diversi anni.
Eppure secondo le denunce delle vittime, recuperate fortunosamente, i legionari della Tagliamento devastarono il Grappa ovunque: razziarono e bruciarono le casere della zona, si impossessarono di centinaia di capi di bestiame, arrestarono tutti i civili incontrati sul cammino stuprando le ragazze, uccidendo con indifferenza.
La presenza dei legionari è confermata sul luogo dove si consumò il dramma a Bassano il 26 settembre 1944, quando 31 giovani tra partigiani e civili, furono appesi agli alberi delle vie cittadine, con il cartello “Bandito” sul petto. L’esecuzione, allestita su tre vie alberate della cittadina trasformate in improvvisati patiboli, venne eseguita, tra gli altri, anche da legionari della Tagliamento.
Così come i legionari fecero parte altresì dei plotoni di esecuzione all’interno della caserma Reatto.
Nelle loro memorie Albertazzi, Mazzantini, Rimanelli e Ceracchini non nominano mai, neppure per errore, nessuna località del Vicentino.
Giorgio Albertazzi ha minimizzato tutta la sua partecipazione di ufficiale volontario alla repubblica di Salò, con una frase, ormai molto nota: «Io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Nel suo romanzo autobiografico, quando si tratta di raccontare il soggiorno vicentino della legione Tagliamento, il filo della memoria s’interrompe con un blak-out, e sposta direttamente il reparto da Pesaro Urbino alla Val Camonica, come se avere il comando di uno dei tre plotoni di cui era composta la 3a Compagnia, e aver partecipato al massacro del Grappa, fosse stato un fatto del tutto accidentale.
Lo scontro in cui fu ucciso l’eroico comandante Vico Todesco, il cap. Giorgi, assieme a Giuseppe Andriolo, Giampaolo Arsié, Antonio Cadorin e Giuseppe Dalla Zanna, avvenne nei pressi di Monte Oro, a Busa delle Càvare, tra i partigiani della Brigata “Italia Libera Campo Croce” e i legionari della 3a Compagnia della Legione “Tagliamento” nella quale era inquadrato con il grado di sottotenente anche Giorgio Albertazzi, allora comandante del 2° Plotone Fucilieri.
Eppure “Ah, sia chiaro: io sul monte Grappa non c’ero proprio” così rispondeva Albertazzi al giornalista del Giornale di Vicenza, Stefano Ghirlanda, che lo intervistava il 7 febbraio 2007.
Questa “dimenticanza” unita alla distruzione di tutta la documentazione attuata dal reparto al momento della resa, ricorda il comportamento delle truppe SS che quando si ritiravano dai campi di concentramento, distruggevano il più possibile, proprio per uccidere la memoria, sostenendo che tanto nessuno avrebbe creduto…
Lo storico francese Jacques Le Goff osserva come la commemorazione del passato abbia conosciuto un vertice nella Germania nazista e nell’Italia fascista in quanto «la memoria collettiva ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblìo è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia sono rivelatori di questi meccanismi di manipolazione della memoria collettiva».
Offende il mio senso civico ed etico il sapere che Albertazzi, Ceracchini, Mazzantini e Rimanelli hanno vissuto a lungo e indisturbati, senza mai assumersi la responsabilità delle loro azioni, anzi talora sventolando spavaldi la militanza in un reparto assassino, tal altra protestando indignati per la propria buona fede e ancora affermando la validità della propria idea nonostante abbia ridotto l’Europa intera ad un gran cimitero.
Come possiamo costruire una società civile e democratica se nessuno è mai responsabile di niente? Distruggere ma anche solo intaccare la memoria di un individuo o di un gruppo umano, significa attentare alle sue radici e mettere a repentaglio la sua stessa identità pregiudicando la capacità di progettare il futuro.
Il recupero della memoria, la sistemazione e l’interpretazione del passato possono contribuire tanto alla costituzione dell’identità, individuale o collettiva, quanto alla formazione dei nostri valori.
Nel dopoguerra nessuno pagò per un massacro costato circa 300 vite umane e l’assenza di giustizia ha reso il dolore ancora più straziante. Lo storico non è un giudice, non ha il compito di stabilire chi è colpevole e chi è innocente, ma stabilisce lo svolgimento dei fatti, a volte con lacune perché è impossibile riparare alla distruzione dei documenti, in ogni caso contribuisce, se fa bene il suo mestiere, alla ricostituzione più corretta della memoria collettiva e, parzialmente, al risarcimento per l’assenza di giustizia, individuando le responsabilità e riconoscendo le vittime.
Io credo che siamo debitori, per dirla con le parole del filosofo Ricoeur, nei confronti di coloro che ci hanno preceduto di una parte di ciò che siamo e nella misura in cui il passato contribuisce a fare di noi ciò che siamo, dobbiamo rispondere del passato. Se oggi noi viviamo in un Paese con molte storture sulle quali possiamo lavorare, ma democratico e libero, lo dobbiamo alle vittime del massacro del Grappa, al sacrificio di questi giovani resistenti verso i quali deve andare tutta la nostra gratitudine. E queste mie parole vogliono essere un piccolo tributo di riconoscenza. Grazie.


Commenti

Inviato Lunedi 30 Maggio 2016 alle 07:31

Langella dimentica che nella Repubblica Sociale Italiana militava anche tanti che poi cambiaromno casacca e diventarono kompagni: Dario FO e pure ricordare Petro Ingrao, Luigi Meneghello, ecc..
Più che ricordare in modo solo univoco quegli avveniomenti sarebbe ora di una autentica pacificazione, ma per questa ci vuiole un coraggio che non si trova a sinistra.
Inviato Lunedi 30 Maggio 2016 alle 08:01

Difficile non controbattere a Langella ...forse non è a conoscenza che i partigiani rossi fecero fuori parecchi partigiani bianchi (cattolici). Quelli della brigata Osoppo, per esempio, alla quale apparteneva anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido. Come in tutte le guerre c'è una grande compartecipazione, ma nessuno può mai essere considerato santo o migliore dell'altro. Né allora, né ora.
Inviato Lunedi 30 Maggio 2016 alle 13:52

Di Langella e Sonia Residori non si può certo mettere in dubbio l'onestà intellettuale. Ma purtroppo la STORIA è sempre scritta dai vincitori... del dopo guerra. Ormai molti storici, si trovano d'accordo sulla definizione di "guerra civile" da attribuire al periodo temporale settembre 43 maggio 1945. Una completa pacificazione potrebbe avvenire se la sinistra Resistenziale capisse alcuni "errori" politici commessi nei mesi precedenti la fine della guerra, ad esempio la data del 25 aprile 1945, non corrisponde alla fine della guerra, scelta frettolosa confermata nel 1949; che con il Veneto, liberato dopo il 28 aprile non ha riscontro. Le vendette nel Veneto Orientale da Treviso al Friuli messe in atto dai "Comunisti" Friulani e Titini anche contro i militari Italiani in divisa. Il triangolo "rosso" emiliano ecc....Ma non voglio andare oltre, ricordo che per finire con una Pacificazione Nazionale il comunista Palmiro Togliatti Ministro della Giustizia, fece approvare una Amnistia che doveva porre termine ad eccidi, assassini, vendette dei...Vincitori. Ricordo che Albertazzi, imprigionato per mesi, accusato, fu assolto da un TRIBUNALE MILITARE e pertanto, almeno sui morti, mi parrebbe dover mettere una pietra tombale. Per il resto, parteciperei da relatore, ad un sano e democratico dibattito documentato storicamente. Grazie.
Aggiungi commento

Accedi per inserire un commento

Se sei registrato effettua l'accesso prima di scrivere il tuo commento. Se non sei ancora registrato puoi farlo subito qui, è gratis.





Commenti degli utenti

Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
Gli altri siti del nostro network