Fiat: Una partita per l'Italia, di Sergio Romano
Sabato 28 Agosto 2010 alle 18:09 | 0 commenti
Sul problema all'ordine del giorno dei ‘comportamenti' sindacali della Fiat e del suo Ad, Sergio Marchionne, riportiamo l'articolo che l'ditorialista vicentino Sergio Romano ha pubblicato ieri in prima pagina su Il Corriere della Sera.
I vincoli globali che fanno bene al paese
Una partita per l'Italia
di Sergio Romano
Come altri discorsi diretti a una platea nazionale nel corso di una controversia, anche quello di Sergio Marchionne al meeting di Rimini contiene un attento dosaggio di riflessioni morali, prospettive future, esortazioni e ammonimenti. Ma ho l'impressione che gli ammonimenti pesino in questo caso molto più di qualsiasi altro ingrediente. Non ne sono sorpreso e non ne sarebbero sorpresi neppure certi uomini politici e sindacalisti se avessero capito che la Fiat è ormai un'impresa completamente diversa da quella del passato.
Il passaggio decisivo, dopo l'uscita dal tunnel, è stato l'acquisizione della Chrysler. L'operazione è riuscita grazie a tre fattori. Marchionne ha impegnato la Fiat con un progetto credibile in un'impresa rischiosa. Il governo degli Stati Uniti ha creduto nella sua offerta e ha messo sul tavolo, per realizzare l'operazione, una considerevole somma di denaro. I sindacati americani, infine, hanno fatto una scommessa sul futuro dell'azienda rinunciando ai loro crediti in cambio di azioni e accettando una diminuzione dei loro salari. Da quel momento il gruppo Fiat-Chrysler non ha soltanto azionisti: ha anche due partner-il governo americano e i sindacati -a cui deve rendere conto del modo in cui gestirà se stesso e farà le sue scelte internazionali. La Fiat è ancora un'impresa italiana e non può ignorare i suoi vecchi legami con il Paese in cui è nata. Ma il suo amministratore delegato, piaccia o no, ha oggi un referente nella persona del presidente degli Stati Uniti. Barack Obama non avrebbe visitato Detroit e ringraziato pubblicamente Marchionne se non avesse voluto sottolineare in questo modo l'importanza che la sua presidenza attribuisce al successo dell'operazione. Il vicepresidente Joseph Biden non avrebbe fatto altrettanto, qualche settimana dopo, in uno stabilimento dell'Ohio, se non avesse voluto ribadire lo stesso concetto.
Intendiamoci. Nessuna multinazionale può ignorare il governo del Paese in cui lavora e, in particolare, quello di una grande potenza. Quando gli Stati Uniti chiesero all'avvocato Agnelli di sbarazzarsi di un socio allora ingombrante (la Libia), il presidente della Fiat dovette acconsentire. Ma i maggiori problemi dell'azienda di Torino, in quegli anni, si discutevano a Roma o a Bruxelles. D'ora in poi occorrerà parlarne anche a Washington. Non credo che il governo degli Stati Uniti voglia interferire nelle decisioni dell'azienda e mettere in discussione le sue strategie. Credo piuttosto che i referenti americani di Marchionne si limiteranno (e non è poco) a chiedergli di fare scelte conformi alle regole dell'economia mondiale, e soprattutto non accetteranno di buon grado che la Fiat garantisca ad altri referenti, in Italia o altrove, condizioni migliori di quelle riservate ai suoi partner negli Stati Uniti. Non sarebbe facile, ad esempio, spiegare perché i sindacati di Detroit debbano avere meno poteri e diritti di quanti ne abbiano i loro colleghi di Pomigliano o di Melfi.
Sono queste le ragioni per cui è difficile immaginare che Marchionne, nella vicenda di Melfi, possa fare un decisivo passo indietro. D'altra parte sarà bene per tutti alzare lo sguardo da una singola vicenda e guardare più lontano. I vincoli multinazionali della Fiat non sono, per noi, una servitù. Dovrebbero essere piuttosto un'occasione da cogliere per mettere l'intero Paese in condizione di meglio affrontare le sfide della concorrenza.
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