Benetton e il 'fu' made in Italy
Lunedi 10 Maggio 2010 alle 01:10 | 0 commenti
Irene Rui, Federazione della Sinistra, Prc, PdCI - Luciano Benetton: "Il made in Italy è finito perché è un modello troppo costoso, dobbiamo realizzare prodotti più democratici utilizzando la manodopera e le materie prime dei Paesi nei quali vogliamo vendere".
Questa è la logica con cui Benetton chiude o fa chiudere, oggi come ieri, le aziende sue contoterziste, vedi la Olimpias di Grumolo delle Abbadesse, dove 130 operai/e nel giro di una settimana senza preavviso si sono visti togliere il lavoro. Benetton come gli altri industriali - per ben che ne dicano i Vescovi e la Marcegaglia al convegno tenutosi l‘8 maggio a Treviso sull'etica - non hanno un'etica se non quella del profitto sulle spalle dei lavoratori.
E' prassi per Benetton fra riqualificare le aziende con investimenti importanti in cambio delle commesse da parte del gruppo, ordini distribuiti mese per mese, con la ventilata speranza di contratti futuri anche se non garantiti.
La Olimpias da anni lavorava per il gruppo Benetton come tintoria e occupava 130 lavoratori. Un'azienda che certamente non era in crisi, ma che la logica del profitto, la strategia di produrre dove si vende, l'ha coinvolta togliendo gli ordinativi da un giorno all'altro. Benetton non ha rinnovato il contratto e con arroganza non si presenta neppure al tavolo regionale per risolvere la questione. In fondo è una partita chiusa e si voltata la carta.
Dalla nave negli oceani che tingeva le magliette a seconda dei gusti del mercato in cui ci si rivolgeva, si è ripassati alla produzione in casa dove alla fine del secolo la deregolamentazione dei contratti rendeva un terreno favorevole alla gestione della produzione nel nostro Paese. E oggi si ripassa a quello delocalizzato, ma con una forma diversa da altri industriali, più "democratica", l'utilizzo di materiali e manodopera là dove il prodotto è richiesto. L'azienda Benetton mantiene "la testa" a Villorba, dove per il momento si progetta, ma delocalizza la produzione in loco all'Estero, dove le regole del mercato del lavoro, sia per l'uso della manodopera, sia di tutela ambientale non sono applicate. Unendo, inoltre, la filiera corta della materia prima, producono un mix favorevole per produrre sfruttando i lavoratori a scapito di qualsiasi etica umana.
Ecco l'etica di Benetton e soci: sfruttare, sfruttare in onore del profitto e non certo per il benessere economico della società italiana. La delocalizzazione produttiva impoverisce, infatti, il nostro Paese, lasciando a casa milioni di lavoratori e lavoratrici, e il vicentino, in nord-est, con la sua miriade di aziende contoterziste ne conosce le conseguenze. La riconversione del personale con corsi di riqualificazione non è utile nel momento in cui le aziende investono non tanto nella riqualificazione produttiva, ma solo in quella della progettazione, del prodotto. Nel senso che mentre la produzione è esportata altrove, in Italia rimangono solo i settori cardini quali l'amministrazione e la progettazione, talvolta la provinatura del prodotto a scapito dell'offerta di manodopera per i comparti produttivi. Questa è la logica del rilancio industriale in Italia. Il made in Italy non è finito, anzi si riqualifica grazie anche a normative che lo permettono, ma c'è bisogno in Italia di un "piano del lavoro" diverso che costringa le aziende ad investire nella produzione nel Paese, anche con sanzioni importanti. Gran parte delle aziende che delocalizzano bene o male hanno avuto sovvenzioni statali di varia natura. Se queste dovessero ritornare allo Stato ciò che hanno ricevuto, delocalizzerebbero ancora?
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