Se a Vicenza nascesse un nuovo rapporto tra nomadi e sedentari.
Venerdi 16 Agosto 2013 alle 21:53 | 4 commenti
È forse tempo di tirare le somme di un argomento che VicenzaPiù, e non solo, ha trattato nelle ultime settimane: la questione delle comunità nomadi.
Attraverso le parole delle autorità comunali – per esempio l’assessore di Schio Antonietta Martino – e attraverso quelle del presidente della Federazione Rom e Sinti Insieme Davide Casadio si è cercato di capire un po’ meglio quale sia la situazione di queste comunità nel Vicentino e come si possa affrontare l’annosa questione, spesso motivo di malumore. C’è anche del corollario che di certe insofferenze è indicativo: su tutto, si veda la provocazione dello scledense Alex Cioni che ha invitato i nomadi del suo paese a occupare la piazza del comune.
La questione campi nomadi va risolta, senza ombra di dubbio. Ma non a senso unico, cioè per la sola tranquillità di chi nomade non è; piuttosto, a due sensi.
Per l’osservatore medio i campi nomadi sono sinonimo di degrado e di delinquenza. Di solito si pensa alla questione come a un sopruso che il nomade fa al non nomade; figuriamoci pure l’azione con una linea retta, una bella freccia «da» «a». Da qui tutta una serie di dichiarazioni riassumibili nel celebre «sono loro i primi a non volersi integrare».
Ma se noi per un attimo abbandonassimo il nostro sguardo sedentario e ci mettessimo nei panni del nomade – è il concetto di entropia, il guardare con gli occhi dell’altro proposto dalla filosofa americana Martha Nussbaum nel suo recente libro La nuova intolleranza – realizzeremmo che forse il sopruso è circolare e va quindi anche da sedentario a nomade.
Raccogliere diverse famiglie in un’area come quella di Viale Cricoli, dotarle di un solo bagno chimico e poi lamentarsi del degrado forse ha qualcosa, diciamo così, di ingenuo.
Annunciare l’arrivo di nuovo denaro per la risistemazione del campo e non mettere affatto in discussione l’esistenza dello stesso ha qualcosa di limitante.
Condannare la risistemazione del campo per poi lamentarsi della presenza dei nomadi è semplicemente qualcosa che non porta a nulla.
Infine, favorire il processo di sedentarismo dei nomadi - al di là delle scelte del singolo che è libero di gestire come meglio crede la propria eredità culturale - è qualcosa di ingiusto: è come se, a parti invertite, i nomadi favorissero processi di nomadizzazione della società sedentaria perché questo fosse comodo a loro e dicessero che poi i sedentari non hanno alcuna voglia di «integrarsi». Perché mai dovrebbero farlo? Chi sarebbero i nomadi per imporre il loro stile di vita? Va da sé che a contatto secolare con una maggioranza sedentaria, una parte di nomadi è diventata e diventerà stabile: è normale perché nessuna cultura è un compartimento stagno e l’influenza esiste sempre. Ma non è affatto normale che favorire un mutamento culturale sia l’unica via d’uscita possibile. Le autorità – comunali, provinciali, regionali, nazionali - sono rappresentanti di tutti, non solo degli stanziali, e dovrebbero pertanto garantire la cultura nomade tanto quanto quella residenziale.
Davide Casadio avanza come possibile soluzione le microaree, che si sostituirebbero ai campi nomadi e con loro demolirebbero quelle barriere che fanno crescere il risentimento da entrambe le parti: del sedentario perché il nomade non si vuole integrare, ma anche del nomade che si vede confinato e invitato a fare a meno della propria cultura perché una maggioranza sedentaria non lo mette in grado di fare altre scelte: attualmente infatti anche le microaree, spiega Casadio, richiederebbero una riforma alla legge del 2001 sull’utilizzo dei terreni agricoli.
Ma, fin tanto che questo non accade, i campi nomadi generano risentimento: al loro interno per chi li impone, al loro esterno per chi li vive.
E più cresce il risentimento, più cresce la diffidenza, e più cresce la diffidenza, più cresce la distanza. Un movimento circolare senza uscita che deve essere rotto.
Insomma bisogna pensare che l’attuale condizione dei nomadi è la causa del disagio di entrambe le parti e che i nomadi hanno diritto di mantenere lo stile di vita che la propria cultura suggerisce loro e di cambiarlo solo se e quando lo ritengano opportuno. Ognuno, in generale, ha il diritto di mantenere la propria cultura nel rispetto di quella altrui.
Siccome la teoria non basta a sistemare le cose, Casadio ha proposto incontri con le autorità vicentine per far sì che da Vicenza e dal Veneto arrivi la soluzione a questo disagio: lì si vedrà quanto le microaree siano utilizzabili in questa regione e quale potrebbe essere, condivisa, la soluzione adatta. Nomadi e stanziali insieme dovrebbero insomma sostenere con sincerità questi incontri e questo possibile cambiamento.Â
Apprezzabile l'intenzione di Alessandro Pagano ma, per favore, basta con quest'uso totalmente improprio e confusivo della parola "nomadi". Non solo i Rom e i Sinti italiani (i manouches non sono in Italia, ma in Francia) non sono "nomadi"(a meno che non vengano continuamente cacciati o privati di un lembo di terra dove vivere), ma è scorretto scambiare un aggettivo con una denominazione etnica. Sinti e Rom: due paroline brevi brevi...è così difficile ricordarsi di usarle?
Accolgo con piacere i suggerimenti bibliografici di "zingara", così una prossima volta potrò essere più preciso.
Riguardo l'uso della parola "nomadi", già rilevato in passato da "francescoparuta", vorrei chiarire che, pur nella sua imprecisione, la preferisco in questo caso a "rom" o "sinti". L'attrito che si crea tra chi vive nei campi e chi invece ne sta fuori non è infatti dovuto in primo luogo all'etnia, ma proprio al fatto di risiedere nei suddetti campi. Che non voglio chiamare "campi rom" perchè non ci vivono solo i rom. Continuando a indicare chi abita nei campi come "rom" e "sinti", anche quando non è strettamente necessario perchè non si sta discutendo di etnie, credo si fomenti ancora di più questa separazione tra un - falso - "noi" non rom e non sinti e un "loro" rom e sinti. Parlando nella vita quotidiana della questione con persone che non vivono nei campi, ho recepito piuttosto una diffidenza verso la cultura nomade - o ritenuta tale -, raramente verso l'etnia in sè, che per altro si tende generalmente a indicare come "rom". Semmai il fastidio verso i "rom" avviene proprio perchè si identifica la minoranza di cittadini che vive nei campi come "rom" e quindi si connotano etnicamente tutti i reati di cui questa minoranza è ritenuta responsabile.
Preferisco quindi concedermi questa imprecisione - io stesso nell'articolo chiarisco che fenomeni di sedentarizzazione come quelli descritti da "zingara" nel suo intervento sono in qualche modo più che prevedibili - che non dare una connotazione a mio parere inutilmente etnica.
Infine, sì, "entropia" è un semplice errore di distrazione di cui mi scuso; il termine corretto, usato anche dalla Nussbaum, è "empatia".
Alessandro.
Vedi ai rom e ai sinti non va di essere indentificati come zingari o nomadi, lo tollerano, ma loro vorrebbero essere indentificati per quello che sono.
Per cronaca in Viale Cricoli ci sono tre aree o campi, in un'unica zona: due sinti e una rom; e quindi non vivono insieme, anche perché le culture sono talmente diverse tra sinti e rom slavi che non vanno d'accordo.
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