Meno Carità cristiana e più Zedakà ebraica: è beneficenza di facciata considerare i nomadi rifugiati politici, è giusto aiutare i profughi
Giovedi 16 Febbraio 2017 alle 21:12 | 10 commenti
E' imbarazzante mettere in vetrina pezzi di umanità " ha scritto ai media Don Enrico Pajarin, direttore della Caritas di Vicenza. E' vero ma secondo me quello che è sbagliato davvero è il concetto di carità nella religione cristiana. La carità non deve essere il calcio sugli stinchi (questa volta ho fornito prova di grande diplomazia...) per ovviare a una situazione di disagio, a danno di chi questo disagio lo vive e l'ha vissuto sulla propria pelle. Il sostegno viene profuso a cooperanti dell'illegalità , a danno della collettività . È giusto? E allora mi pongo un quesito, visto che un terzo della mia vita è stato vissuto nella bi-religiosità : Fare Carità o fare Zedakà ? I termini Zedakà e Carità potrebbero essere confusi, soprattutto per chi non ha dimestichezza con la parola ebraica, con il concetto di Zedakà e con lo stile di vita ebraico. Il termine ebraico si differenzia molto da quello cristiano, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello filosofico.
La parola "carità " deriva dal latino caritas, che vuol dire amore, benevolenza; la parola "filantropia" dal greco philo, che vuol dire amore, e anthropos (uomo), indica che la base non-ebraica o cristiana di carità è l'amore: solo quando sento amore e compassione per l'altro, faccio la carità . Ergo, se non sento amore e compassione non la faccio! La parola Zedakà viene dalla parola ebraica zedek, che vuol dire giustizia, o più correttamente la cosa giusta da fare. L'ebreo allora è emotivamente e religiosamente coinvolto nella Zedakà perché è la cosa giusta da fare, non perché ha un sentimento particolare per il destinatario. Dare lo stato di rifugiati politici ai nomadi non può essere considerato una Zedakà , ovvero una cosa giusta da fare, perché esso è un atto di ingiustizia nei confronti di chi dalla guerra scappa davvero a favore di chi conduce una vita disordinata, per libera scelta, che rifiuta regole, principi e fatica lavorativa, almeno secondo il mio punto di vista.
L'imbarazzo lo crea l'interpretazione di una beneficenza di facciata, politicamente corretta, ma che viola il senso di giustizia.
Ed è per questo che quando qualche paese rifiuta il nostro aiuto noi ci andiamo ugualmente. Così è successo in Emilia, ad Amatrice, in Turchia e nei paesi islamici sotto mentite spoglie, ma questo è il principio di Zedakà , fare la cosa giusta. Credete che sia facilmente sopportabile per Israele sentirsi dire "no" dall'Italia, quando i nostri militari, comunque pezzi di cuore, si sono offerti volontari per andare a dare una mano a Amatrice? Tanto del rifiuto della "carta lucida o teatrale" non sappiamo che farcene e noi ci andiamo ugualmente, non con l'esercito, ma con Israid (nella foto di copertina IsrAID un anziano riceve un pacco dono da IsraAID).
Siamo andati anche ad Amatrice e ci siamo ritornati anche poco fa, sotto la neve, per portare forse non tanto, ma quel poco che basta per dare un segno di affetto e di calore.
Israid, tanto per citare una organizzazione a caso e perché so di poterlo fare, risponde a situazioni di emergenza in 39 nazioni, ha aiutato 1.000.000 di persone, distribuito 1.000 tonnellate di medicine e supporti medici. È formato da più di 5.000 professionisti locali. Mobilita più di 850 staff, volontari e professionisti specialmente medici, infermieri, terapisti e lavoratori sociali. In Germania siamo presenti per aiutare nell'integrazione i nuovi rifugiati da Siria, Iraq e Afghanistan con un team specializzato che parla inglese e arabo e in Grecia, sempre per la pronta emergenza sbarchi. Israid è ancora presente a Haiti, in Giappone, in Kenya, Liberia, Nepal, Filippine, Sierra Leone, Sudan del Sud, Uganda, Corea del sud, Usa e Giordania.
Siamo andati in Nepal ad aiutare, questa volta ufficialmente con una delegazione dell'IDF (esercito israeliano), la fondazione Israelife ha coordinato un team di risposta immediata al disastro, composto da personale medico di emergenza dell'United Hatzalah, specialisti della FIRST e le squadre di recupero di ZAKA, ma anche a riprenderci i bambini nati con la maternità surrogata (tra mille polemiche, ma non si può di certo lasciarli morire perché sono figli di un embrione discutibilissimo). Venti di questi, figli di coppie gay israeliane, sono stati evacuati dalle zone devastate dal sisma e sono stati portati in aereo in Israele, dove vivranno con i nuovi genitori, ma poi i nostri sono così cattivi che non se la sono sentita di lasciare là le madri naturali ed hanno portato in Israele alcune di loro (anche questo tra tante polemiche). Allora mettiamo in vetrina una corretta immagine di Israele, l'immagine sbagliata è colpa dei media, ma colpa anche di Israele che, pur avendo inventato una miriade di App, non riesce a trasmettere i valori nei quali crediamo. Noi "Israele" andiamo tutti i giorni in Siria a prenderci pezzi di anime da curare ed abbiamo adottato anche un centinaio di orfani. I nostri volontari non hanno tempo di presentarsi nei salotti buoni della città , perché appena rientrano, c'è già una nuova emergenza. Non vanno alle conferenze a dire "io ho curato", "io ho fatto" perché è una cosa che si fa e basta. Uso spesso il termine "noi", "i nostri" anche se ora non sono tecnicamente operativa, perché dove arriva la Zedakà arriva il concetto di "noi", non di "io", e dove ci siamo "noi" o "quelli come me o quelli molto migliori di me" c'è un pezzo di Israele che si muove, vi piaccia o no. Forse facciamo delle cose che non vi piacciono, non vi chiediamo di imitarci in quelle, ma almeno provate ad imitarci laddove facciamo del bene, senza fare il benché minimo rumore.
Il dialogo è un processo che richiede comprensione e comprensibilità, per cui cerco di spiegarmi meglio.
Ho risposto sui principi, affermando che per valutare cosa è giusto serva amore. Da ciò si tragga che, dati i suoi assunti, i due concetti si muovono su piani diversi, ed è forzatura paragonarli e valutarli comparativamente.
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