Libertà di ipocrisia
Giovedi 17 Settembre 2009 alle 18:48 | 0 commenti
La Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il sindacato dei giornalisti, aveva indetto per sabato 19 settembre a Roma una manifestazione per la libertà di stampa contro il governo Berlusconi (poi sospesa in seguito all'attentato militare in Afghanistan, ndr). Il pericolo, ha chiarito il segretario Franco Siddi, è che il Presidente del Consiglio «si prepari all'affondo finale per abbattere, eliminare, comprimere con leggi bavaglio, il giornalismo che vuole raccontare i fatti approfondire, fornire ai cittadini un'informazione completa». Ora, che Silvio Berlusconi sia refrattario alla stampa come potere di controllo della politica è un fatto acclarato che dovrebbe allarmare tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, al di là delle appartenenze di partito. Il premier è rimasto sempre quello che è: un capo-azienda dalle manie di grandezza e con l'allergia alla critiche, sentite come inaccettabili disfattismi lungo la via del (suo) successo.
La scandalosa legge che limita la pubblicazione delle intercettazioni e la proposta, ereditata da Franco Levi braccio destro di Prodi, di ingabbiare la controinformazione su internet, dimostrano un'inusitata volontà di normalizzare, schedare, mettere a tacere le voci scomode. Ma i recenti casi di scontro fra Palazzo Chigi e mondo giornalistico svelano l'altra faccia della medaglia. Quella che può disorientare gli antiberlusconiani dalle granitiche certezze, e che conferma invece quanto il gioco politico in Italia sia una lotta fra bande della stessa risma. La campagna intimidatoria dello scherano Feltri contro l'ex direttore di Avvenire Dino Boffo ha visto la Chiesa nella parte del complice che finge di fare la vittima, poiché invece di difenderlo gli hanno dato il benservito, lasciando a qualche isolato prelato una flebile indignazione. In realtà , papa Ratzinger ha sfruttato l'occasione per rimettere in riga la Cei di cui Boffo era un'emanazione, e trattare direttamente col governo di Roma in questa fase di transizione verso il dopo-Berlusconi. La levata di scudi per la querele di quest'ultimo a Repubblica e l'Espresso per le domande e i servizi sui suoi discutibili costumi sessuali è ipocrisia allo stato puro. Benchè mostri ancora una volta quale padronale concezione dell'informazione abbia il Papi, querelare un giornale non rappresenta di per sé un attentato alla libertà di stampa (semmai un'intimidazione, pratica molto diffusa fra i politici di ogni fazione). La sinistra giornalistica italiana dovrebbe chiedersi, invece, se rappresenti davvero una prova di vero giornalismo quello di dedicare mesi di paginate sui fatti privati di un politico che, finchè non costituiscono reato, rimangono esclusivamente fatti suoi. D'accordo, stiamo parlando del capo del governo in carica, di un uomo pubblico da cui dipendono le sorti del Paese. Ma ben altre sono le questioni che incidono sulla vita della gente: la crisi economica, la disoccupazione, l'avvelenamento ambientale, le istituzioni sequestrate dai partiti e dai potentati economici, la finanza bancaria che continua a dettar legge e, certamente, l'incostituzionale lodo Alfano. Temi su cui le ricette della sinistra fiancheggiata dagli Ezio Mauro e dai Giuseppe D'Avanzo divergono da quelle della destra solo sulle sfumature, quando di fatto non li eludono. Il can can sull'estromissione dal video di Ballarò per far posto ad una serata di Porta a Porta, poi, è degno dei peggiori spettacoli di regime. La banda di sinistra strilla e strepita per l'offesa fatta al suo beniamino, il vespino Floris. Mentre Santoro reciterà come al solito la sceneggiata del censurato causa problemi di rinnovo al contratto di Marco Travaglio, giornalista fra i migliori sulla piazza ma che certo spazi dove lavorare ne ha avuti e ne avrà (a proposito, il 23 settembre esce il nuovo quotidiano Il Fatto, una bella novità nel plumbeo panorama editoriale italiano).
La stretta alla libertà di informare in Italia non è nata con Berlusconi, né si risolverà con la sua uscita di scena. Perché l'editoria di questo Paese è in mano a pochi grandi gruppi, di cui quello berlusconiano con le sue televisioni è il maggiore ma non l'unico. A libro paga di una manciata di industriali, banchieri, finanzieri, palazzinari e concessionari pubblici, i giornalisti italiani della stampa d'establishment sono già privi di libertà . Per obbligo, per vocazione o per necessità , il servilismo è, salvo rare eccezioni, il loro marchio di fabbrica. Che il padrone sia Berlusconi, De Benedetti, gli Agnelli, Mediobanca o Soru, la differenza sta solo nell'interesse, diverso per ciascuno e uguale per tutti. Pecunia non olet.
Alessio Mannino
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