I babboccioni Boschi, Renzi, Lotti, Guidi: una volta c'erano i bamboccioni
Sabato 26 Dicembre 2015 alle 10:59 | 4 commenti
di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano
Papà Boschi, Pier Luigi, che manda in vacca Banca Etruria. Papà Renzi, Tiziano, che fa bancarotta e, quando il figlio diventa premier, si ricicla uomo-sandwich di outlet in giro per l'Italia per la società dell'ex presidente della Banca del Buco. Papà Lotti, Marco, funzionario della Bcc di Pontassieve, che nel 2009 firma un mutuo da 697 mila euro a papà Renzi, e di lì a poco suo figlio Luca diventa capo della segreteria del neosindaco Matteo Renzi, il quale ingaggia nella sua segreteria anche sua moglie Cristina Mordini. E papà Guidi, l'imprenditore Guidalberto che - come ha scoperto il nostro Marco Lillo - telefona all'avvocato Aiello, fedelissimo di Maroni, per parlare della sua nomina a commissario di Geo Ambiente, subito ratificata dalla figlia ministra Federica.
Valeva la pena di rottamare un esercito di politici settantenni carichi di mogli, amanti, figli e nipoti da sistemare, per consegnarci a una combriccola di quarantenni provinciali e immaturi che ancora pendono dalle labbra e soprattutto dagli affari dei genitori? Hai voglia a ripetere che le colpe dei padri non ricadono sui figli: ma questi figli sarebbero diventati ciò che sono senza cotanti padri? È l'evoluzione a passo di gambero del familismo amorale italiota, passato dai figli di papà ai papà di figli, dal nepotismo al papismo. Anche i padri per i figli, come i figli per i padri, so' piezz'e core.
Nella Prima Repubblica era normale per i politici raccomandare i rampolli, o comunque per i rampolli far carriera sul nome dei padri. La cosa faceva notizia solo quando i pargoli finivano per rovinare gli illustri congiunti: Attilio Piccioni fu distrutto dalle accuse al figlio musicista Piero (poi assolto dal delitto Montesi) e Giovanni Leone dovette sloggiare anzitempo dal Quirinale per le maldicenze sull'allegra vita dei suoi cari. Il malvezzo proseguì nella Seconda Repubblica dove - a parte B. che sistemò la prole in azienda per dedicarsi alla promozione artistico-culturale delle sue squinzie fra Rai e Parlamento - fu tutto un susseguirsi di politici finiti nei guai per l'esuberanza dei marmocchi: Renzo Bossi detto Trota, Giulio Napolitano, Geronimo La Russa e poi gli eredi della Moratti, di Mastella, di Di Pietro, della Cancellieri, di Scajola, della Fornero, di Lupi, di De Luca e ora anche di Mattarella (il figlio Bernardo è capufficio legislativo e badante della ministra Madia). Senza dimenticare il cognato di Fini, la moglie di Matacena e il fratello di De Magistris.
La Terza Repubblica (si fa per dire) renziana è cominciata almeno con questa novità (si fa sempre per dire): i babboccioni che mandano avanti i bamboccioni perché gli vien da ridere. Del resto i quarantenni degli anni 2000 hanno cuccioli troppo imberbi (quando li hanno) per accampare già pretese e genitori troppo giovani per rassegnarsi alla pace dei sensi, all'andropausa e alle panchine dei giardinetti. È il modello Moggi che si afferma in politica: fu Lucianone a metter su, intestandola al piccolo Alessandro, la Gea World per spadroneggiare sul calcio scansando formalmente - siamo in Italia - i conflitti d'interessi. Dentro, c'erano le figlie di Geronzi e Tanzi e i figli di Cragnotti, Calleri, De Mita e Lippi. Chi comandava, è inutile spiegarlo. Ora il metodo Gea World è salito al governo e fa quasi tenerezza Maria Etruria Boschi quando balbetta alla Camera: "Mio padre è onesto, ma se ha sbagliato pagherà ". Che ne sa lei di quel che ha fatto il babbino nel disastro etrusco? A stento s'accorge di quel che ha fatto lei, entrando e uscendo a casaccio dai Consigli dei ministri che salvavano la banca (e pure il papà ), come un'orfanella sola al mondo.
Già nel 1400 il cardinale Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II, motteggiava: "Quand'ero solo Enea/nessun mi conoscea/ora che sono Pio/tutti mi chiaman zio". E quando Mussolini fece ministro suo genero Galeazzo Ciano, figlio del conte Costanzo, quest'ultimo fu canzonato in rima da Mino Maccari: "Sua Eccellenza, facciam voti che sian meglio i nipoti". Leo Longanesi propose d'iscrivere nel tricolore il motto nazionale "Tengo famiglia".
E nel 1964 Luigi Barzini scrisse ne Gli italiani. Vizi e virtù di un popolo che da noi "il primo centro di potere è la famiglia, una cittadella in territorio ostile: entro le sue mura e tra i suoi componenti, l'individuo trova consolazione, soccorso, consiglio, nutrimento, prestiti, mezzi, armi, alleati e complici che lo aiutano nelle sue imprese... L'Italia non è una nazione, ma una federazione di famiglie". Naturalmente "la famiglia impegna in primo luogo la fedeltà di tutti. Deve essere difesa, arricchita, resa potente, rispettata e temuta", con "tutti i mezzi indispensabili, legittimi se possibile, o illegittimi". E "la maggior parte degli italiani ubbidisce ancora a un duplice codice morale. Vi sono norme valide nell'ambito della cerchia familiare diverse da quelle che regolano la vita fuori di casa... Ogni autorità ufficiale e legale viene considerata ostile finché non abbia dimostrato di essere amichevole o innocua; se non la si può ignorare, la si deve aggirare, neutralizzare, o, se necessario, ingannare". Parole che paiono scritte oggi sul viluppo di affarucci e furbacchionerie provinciali, da contado toscano, che stanno dannando il governo Renzi. Quando la vedova Moro rivelò che il marito aveva un conto in Svizzera, in barba alla legge, "per timore del golpe", Montanelli scrisse che i politici, quando morivano, avrebbero dovuto portarsi nella tomba mogli e figli. Troppo complicato: messi come siamo, non resta che affidarci a figli unici, celibi o vedovi, sterili e soprattutto orfani.
Ma i problemi di oggi sono il risultato degli sbagli di ieri, la storia è cosi.
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