Vietato astenersi
Giovedi 7 Giugno 2012 alle 23:34 | 0 commenti
di Giorgio Langella, Segretario Provinciale PdCI FdS
In Italia il tasso di disoccupazione è salito al 10,9% (+2,3% in un anno). I disoccupati (aprile 2012) sono 2.615.000. Una cifra spaventosa cresciuta di 38.000 unità in un mese. I giovani senza lavoro sono il 35,9%. Nel sud le giovani donne senza lavoro sono il 51,8%. A questi cittadini senza lavoro si devono aggiungere tutte gli oltre 3.000.000 (dati di marzo 2012) che vorrebbero lavorare ma non hanno più la speranza di farlo e si sono rassegnate all'inattività .
Quelli diffusi dall'Istat sono dati drammatici che evidenziano una mancanza di lavoro ormai endemica. Dimostrano l'incapacità , da parte di chi è nelle istituzioni, di affrontare le conseguenze della crisi. Una crisi strutturale del modello capitalista. Il disastro occupazionale viene confermato anche nella nostra regione. Nei primi tre mesi del 2012 i disoccupati in Veneto sono 144.000 (6.3%). I cittadini che, per sfiducia, non cercano più lavoro o lo cercano saltuariamente sono oltre 100.000. Il tasso di disoccupazione veneto è più basso di quello nazionale, ma questo non consola dal momento che neppure 10 anni fa era un terzo di quello odierno e che in un solo anno si sono persi 20.000 posti di lavoro. E poi, da gennaio ad aprile le aziende venete entrate in crisi sono 329 con 7.442 lavoratori coinvolti (erano 7.077 nello stesso periodo del 2011). Le ore autorizzate di cassa integrazione sono 28.578.695. I lavoratori in mobilità sono 13.747 (+368 rispetto al 2011). Numeri che non sostituiscono ma, quasi sempre, si sommano a quelli disastrosi degli ultimi anni. Dati che ci fanno capire come la "riforma" del lavoro recentemente approvata dal Senato (da PD, PDL, Terzo Polo) non sia solo ingiusta ma sbagliata.
I "professori" ci spiegano che per aumentare i posti di lavoro bisogna licenziare. Ci dicono che perché i giovani possano lavorare, gli anziani non devono andare in pensione. Chi governa (a Roma come a Venezia) non vuole "disturbare" e lancia lo slogan "più flessibilità del mercato del lavoro in ingresso e in uscita". In pratica assunzioni "precarie" e licenziamenti "sicuri". Nessun "piano per il lavoro" che veda lo Stato dettare le regole e (ri)diventare protagonista dello sviluppo del paese. Un progetto nel quale lo Stato non si limiti a devolvere denaro pubblico a banche o a imprese private ma torni a diventare produttore. Uno Stato che indichi e decida le migliori politiche industriali ed economiche. Da troppo tempo si urla "privato è bello". In nome di questo slogan, si sono privatizzate industrie pubbliche strategiche e molti beni comuni sono stati regalati a qualche monopolista privato. Sono stati concessi grandi privilegi a pochi in cambio della riduzione dei diritti di tanti. La produzione industriale è stata sacrificata alla finanza. Il territorio è stato divorato dalla speculazione. Il risultato è stato, è e sarà un disastro. Il governo è diventato succube di quella parte di capitalismo cialtrone che ha trionfato. L'economia basata sul "giro di denaro" ha reso il lavoro sempre più precario e povero. Lo ha fatto anche togliendo la linfa del credito a quegli imprenditori che volevano investire nella produzione e non nella finanza. Il denaro pubblico, che doveva servire a finanziare lo sviluppo, è stato prestato alle banche a interessi irrisori. Di fatto, è servito a coprire le loro voragini di bilancio o ad alimentare i derivati che oggi ammontano a nove volte il Pil mondiale. E su un fronte parallelo la politica neoliberista imposta dal capitalismo nostrano (e non solo) ha lasciato fare quello che volevano a "grandi industrie" (es. Fiat) anche in contrasto con le leggi dello Stato. Una politica inerte di fronte alla chiusura di fabbriche ancora produttive. Una politica che non ha contrastato ma favorito le delocalizzazioni, che ha fatto diventare il lavoro sempre più precario e ha permesso la diffusione del lavoro nero. Tutto in nome del profitto privato. Del guadagno di chi ha avuto la libertà di speculare e trasferire enormi ricchezze nei paradisi fiscali. Così, a poco a poco, il tessuto produttivo del Paese si è prosciugato. A farne le spese sono i lavoratori e i pensionati, ai quali vengono imposti sacrifici insopportabili e restano senza prospettive di miglioramento. I responsabili non sono solo i "ministri professori". Loro hanno solo perfezionato quello che i precedenti governi avevano impostato. Ma se è bene ricordare che negli ultimi dieci anni quasi otto sono stati caratterizzati da governi di destra guidati da Berlusconi, Bossi e Maroni (e da Fini e Casini), non si possono tacere le "timidezze del centrosinistra" che hanno frenato quel cambiamento promesso dal governo Prodi. Considerare la finanza unico motore dell'economia e depenalizzare reati fiscali come il falso in bilancio ha favorito l'evasione fiscale e la corruzione. Bisognerebbe cambiare, ma in parlamento l'assenza della sinistra e la presenza di una vera opposizione ostacolano il progresso. I partiti fino a ieri più consistenti, hanno poca credibilità a causa degli innumerevoli scandali e di una politica ormai priva di ideali. Il segnale arrivato da chi, alle ultime amministrative, ha votato "contro il sistema" o per il "partito dell'astensione" (oggi maggioritario), è fortissimo. Un voto che, se per molti aspetti appare qualunquista (sull'onda del "tutti sono uguali"), è una chiara e inequivocabile richiesta di cambiamento. Protestare con l'astensione, allora? No, con la partecipazione. Perché astenersi non significa vero cambiamento ma rassegnazione di fronte a chi il potere ce l'ha e vuole mantenerlo anche esasperando la sfiducia degli elettori. È necessario fare politica con proposte concrete. Dare sostegno con i fatti a chi ancora ha la volontà di progettare un mondo migliore. Rifiutare l'indifferenza e stare dalla parte di chi non accetta paure, timidezze e quei compromessi che hanno come principale obiettivo il "fare carriera". Partecipare. Da protagonisti alla costruzione di un modello di sviluppo diverso da quello attuale. Un modello, quello odierno, che sappiamo bene cosa ha prodotto: la crisi che stiamo pagando.
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