Tremonti e "Il diritto di licenziare"
Mercoledi 24 Agosto 2011 alle 08:47 | 0 commenti
Riceviamo su [email protected] da Annalinda Ricci del PdCI di Alessandria e pubblichiamo
Negli ultimi tempi ha iniziato finalmente a svilupparsi una presa di coscienza nazionale, fra i lavoratori di molti settori, sui pericoli che incombono sul cosiddetto "servizio pubblico", con la correzione della finanziaria che taglia ancora drasticamente fondi ai Comuni per sanità , ambiente e trasporti.
La vendita ai privati dei Servizi Pubblici, non approvata dai cittadini, attraverso la vittoria piena dei si al referendum, viene fatta rientrare subdolamente con la scusa di dover reperire fondi, per far fronte alle richieste di rientro del debito pubblico inoltrate dall'Europa all'Italia. Successivamente alle parole del Ministro dell'Economia, Tremonti, che non ha palesato alcuna novità e neppure dato adito a fraintendimenti sul futuro del ‘Sistema Italia', il sostanziale leitmotiv è stato che ‘bisogna certamente intervenire sui costi della politica, ma soprattutto e come sempre sui diritti dei lavoratori'.
Si sono avanzate le ipotesi di far coincidere le festività con le domeniche (salvo quelle religiose) per imitare sistemi di altre nazioni europee attraverso cui si nutre la falsa speranza di determinare l'aumento della produttività , con buona pace del rispetto della qualità della vita dei lavoratori e della tanta magnificata tutela della famiglia come istituzione.
Altro tema messo sul piatto dell'attacco dei diritti dei lavoratori, è stata la richiesta di rendere più flessibile il mercato del lavoro. Tale teoria viene motivata con il pretesto di ridurre forme di uso smodato di contratti a tempo determinato che, secondo le commissioni Bilancio e Affari costituzionali di Camera e Senato e secondo lo stesso Tremonti, produrrebbero instabilità non solo individuale, ma anche sul sistema economico del paese. A proposito di precarietà individuale ed economica, contrasta il fatto che poi, il Ministro abbia accolto le richieste della Bce, facendo aleggiare, cosa poco sottolineata dai media, anche il concetto del "diritto a licenziare". A questo quadro di ricaduta del disastro economico Italiano sulle spalle dei lavoratori si devono aggiungere, l'intervento sulle pensioni di anzianità e su quelle delle donne nel settore privato, lapalissiano sviluppo del "precedente" instaurato nel pubblico impiego.
Le parole d'ordine sono ormai sempre le stesse: tagli a servizi pubblici, sanità e pensioni e indice Mibtel.
La incessante e sproporzionata ingerenza dei mercati, nell'economia interna del Paese, non concorre a mio avviso, a rendere la situazione dei lavoratori più stabile, semmai apre scenari funesti e conseguenze sociali e ambientali catastrofiche. La riforma dell'articolo 81, alla quale segue quella dell'articolo 41, sulle liberalizzazioni, è uno dei punti cruciali che terranno con il fiato sospeso molti lavoratori delle Partecipate Pubbliche, in quanto riorganizzazione soggetta a una tempistica non prevedibile e a risultati incerti, per quanto riguarda il mantenimento dei posti di lavoro e la qualità dei servizi offerti.
La vendita dei servizi pubblici (con probabili dismissioni di maestranze dalle professionalità acquisite e di servizi utili al cittadino, in favore del profitto del privato) e il ‘diritto a licenziare' non contribuiranno a ridurre il debito, ma ad aumentare il profitto di aziende private.
Non si capisce come l'economia reale e la società civile, di conseguenza, potranno veder migliorata la propria condizione e alleggerito il peso fiscale.
Il mondo del lavoro tutto, è evidentemente considerato incapace di intendere la realtà delle scelte politiche, dacché paradossalmente si evocano nello stesso intervento, l'idea di posti di lavoro meno precari e il "diritto a licenziare", temi attribuiti alle richieste della Bce, appunto.
Il debito dello Stato si ridurrebbe di molto se in Italia fosse più facile licenziare? Ogni esegesi appare inappropriata. L'unica verità è la condanna a un futuro di incertezza, cui si è precipitati gradino per gradino, dagli anni 90 in avanti, senza che la politica si rendesse conto, dello sfacelo che vi era in fondo al baratro, per i propri figli. Preoccupazione per il lavoro e per la pensione, sono le uniche certezze ereditate dai lavoratori delle ultime due generazioni e da tutti coloro che per qualsivoglia motivo si sono trovati, in età avanzata, a essere costretti in mobilità o nella disoccupazione.
La politica operata prima dal governo Prodi in maniera soft, con lo sdoganamento delle agenzie di lavoro interinale, poi dal berlusconismo efferato di liberalizzazioni e di privatizzazioni, hanno ridotto milioni di italiani, non necessariamente giovani, a una condizione di precariato del lavoro e dell'esistenza, che non permettono altro che di vivere alla giornata.
Il Berlusconi autocrate e autoreferenziale, delle ‘ville in Sardegna e delle grandi feste, popolate di belle donne', resterà nella storia moderna italiana per molti aspetti riprovevoli del proprio governo e della propria persona e per aver tolto ai lavoratori giovani il beneficio di sognare e di avere progetti per la propria esistenza.
La speranza di avere una famiglia, una casa propria; l'aspirazione non della realizzazione del sé, traguardo intrinsecamente difficile e riservato a pochi fortunati, ma di arrivare almeno a possedere beni di prima necessità che permettano di giungere alla fine del mese, sono ormai il principale obiettivo di una guerra fra poveri, che tritura e fagocita le aspettative di molti ceti sociali. Se a tutti questi argomenti, si aggiunge la disoccupazione giovanile al 30%, parlare di libertà di licenziamento, diviene bizzarro e fa pensare solo a un futuro di schiavismo moderno e ha un colpo mortale per un welfare già dissanguato. La forbice del capitalismo si sta allargando a una velocità mai vista: i poveri si moltiplicano esponenzialmente, le classi medie (anche quelle del nord più ricco) sono sempre più vicine alla linea di demarcazione sottile che le divide dalla ristrettezza economica, i privilegi restano un miraggio di pochi, lontani anni luce nel modus vivendi, da tutti gli altri.
La Bce ci costringe a rientrare nei ranghi europei per non finire come la Grecia, ma indica una strada che si rivela un campo minato per il popolo italiano, mentre il governo allo sbando, non ha neppure un' idea sua, su quale cammino intraprendere per far ripartire l'economia. Il degrado economico porta con se infiniti mali sociali e per uscire da questo Medioevo Europeo, non basterà averne voglia, cosa che per altro sembra mancare all'Italia.
L'economia di mercato ha fallito e bisogna trovare un'alternativa che restituisca respiro al Paese.
Abbiamo abbandonato gli insegnamenti della storia; abbiamo vissuto oltre i nostri mezzi; abbiamo demolito le esperienze e i diritti del lavoro conquistati con il sangue e con la fatica dai nostri nonni, dai nostri genitori; abbiamo creato un cortocircuito che sarà molto difficile da riparare e auspichiamo che per riuscirvi non sia necessario passare per l'ennesima volta sotto le forche caudine del terrorismo armato o, peggio, di una terza guerra mondiale; abbiamo scordato i primi Articoli della Costituzione i suoi Principi Fondamentali:
Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità , e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società .
Art. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
La Storia insegna che l'Europa unita non si è mai vista se non costretta dalle armi: ciò dovrebbe allarmare i governanti, giacché l'economia non è un fenomeno naturale, a dispetto delle similitudini lessicali utilizzate per descriverne il tracollo (tsunami, terremoto et cetera).
Tale stravolgimento del sistema capitalista, arriva prima del previsto perfino per le teorie del Capitale del nostro buon vecchio Marx e non certo annunciato dall'inspiegabile preveggenza di Nostradamus o da astronomiche e matematiche teorie di antichi calendari Maya.
Se non si correrà ai ripari, attraverso l'attuazione di una exit-strategy di lungo respiro, che riporti un po' di stabilità e pace economica, che allontani inequivocabilmente scenari foschi di popoli affamati, inclini a nuove rivoluzioni dall'esito non scontato, il rischio è che, attraverso la più recente evoluzione amorale della società moderna, a guidare il nuovo corso della storia siano uomini senza principi, né scrupoli, né credo morali, che non avranno nulla da perdere e che combatteranno non per vivere, ma per sopravvivere, difendendo o cercando di accaparrarsi come belve, quel poco che resterà di ciò che appunto si definiscono atavicamente beni di prima necessità : cibo e ripari per le proprie famiglie. Un'implosione vera e propria del futuro, dell'evoluzione darwiniana, dell'era del progresso: il fallimento del Novecento e della sua eredità .
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