Pakistan, Langella: una tragedia immane che diventa normale
Domenica 16 Settembre 2012 alle 17:07 | 0 commenti
Riceviamo da Giorgio Langella, segretario regionale PdCI FdS, e pubblichiamo
Poche righe nascoste nelle "brevi" di cronaca. Una nebbia avvolgente. La notizia bisogna cercarla con attenzione, "navigando" su internet, raccogliendo informazioni in giornali poco diffusi e in siti stranieri. Un paio di giorni fa, in Pakistan, oltre 300 persone sono morte nell'incendio di due fabbriche. Uomini, donne e bambini che lavoravano senza alcuna sicurezza sono morti, bruciati vivi. Una tragedia immane che, grazie al silenzio e all'indifferenza, diventa "normale". Qualcosa alla quale ci si deve abituare.
Cercando in internet si apprende che i proprietari della fabbrica tessile dove si è verificato la tragedia maggiore (oltre 260 morti) non sono stati arrestati perché hanno pagato mezzo milione di rupie (circa 4.000 euro) per garantirsi la libertà per almeno otto giorni. Alcuni testimoni scampati alla strage affermano che i padroni della fabbrica si preoccupavano di mettere in salvo i macchinari. Dei lavoratori poco importa.
Di fronte a ciò si resta attoniti. Mancano le parole, le idee si rattrapiscono. Si prova un forte sentimento di indignazione di fronte a quella che è una strage frutto dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Poi si legge che Mario Monti ha dichiarato che lo Statuto dei lavoratori ha provocato molti danni. E si ascoltano le dichiarazioni di "lorsignori" sulla necessità di essere competitivi abbassando la soglia della sicurezza nel lavoro, cancellando i diritti e aumentando lo sfruttamento. Ci si guarda attorno e si vedono le fabbriche della nostra provincia e di tutta Italia chiuse perché il lavoro è stato "spostato" là dove costa meno e dove ci sono minori garanzie per i lavoratori. E, sempre "lorsignori" ci spiegano che "è il mercato che lo impone". E allora l'indignazione lascia il posto alla rabbia e alla convinzione che il sistema capitalista è profondamente sbagliato. Ci si ricorda che anche nel nostro paese così "sviluppato" e democratico si muore di lavoro. Magari non con tragedie immani e "immediate" come quelle pakistane ma lentamente, un poco alla volta. Si muore con l'amianto dell'Eternit, con le malattie contratte dai lavoratori della Marlane-Marzotto, con il cromo esavalente della Tricom, con i veleni dell'Ilva. È il sistema che è sbagliato. È il sistema che uccide in nome del profitto a tutti i costi.
Al governo Monti e a chi lo sostiene vorremmo dire che le tragedie pakistane, e quelle nostrane, non possono e non devono essere la norma. Vogliamo gridare che, per lavorare, non possiamo accettare di rinunciare al diritto alla sicurezza e alla salute perché altrimenti "non si è competitivi". Siamo consapevoli che dovremo difendere e conquistare ogni diritto con la lotta. Siamo convinti che nessun padrone regalerà nulla. Ma siamo altrettanto convinti che il nostro futuro non possa essere quello di chinare la testa e subire i capricci e le imposizioni di chi "dirige" l'economia del paese. La soluzione è di cambiare il modello di sviluppo attuale. Dobbiamo lottare per costruire un movimento per i diritti dei lavoratori che non si limiti ai confini italiani o a quelli europei. Dobbiamo tentare di unire i lavoratori di ogni paese perché i diritti non vengano tolti a chi li ha ma vengano estesi a chi ne è carente.
È un'utopia? Un sogno? No. Questa è la nostra globalizzazione. Una battaglia di civiltà .
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