Non si Appoggi una festa di cartapesta
Giovedi 21 Gennaio 2010 alle 18:33 | 0 commenti
Lettera aperta al consigliere variatiano delegato ai festeggiamenti per l'anniversario dell'Unità nazionale. Che è un mito fasullo. Ma utile per una pioggia di soldi a fini di consenso
Caro Marco Appoggi,
scrivo a Lei in qualità di consigliere comunale insignito di recente dal sindaco Achille Variati della delega - se mi permette, un tantino retorica - per i festeggiamenti del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. E le chiedo subito: quali opere, quali finanziamenti, quali celebrazioni e soprattutto quali costi avrà la pompa che anche i vicentini dovranno sorbirsi per il sacro evento?
Sul territorio nazionale, ne abbiamo già un'idea. Fu il governo di centrosinistra di Romano Prodi a mettere in piedi un comitato bipartisan di trentuno garanti, alcuni dei quali dalle competenze storiografiche alquanto discutibili (alcuni nomi: l'ubiquo Gianni Letta, il giurista Gustavo Zagrebelsky, la scrittrice Dacia Maraini, il filosofo Marcello Veneziani - successivamente dimessosi - il giornalista Pietrangelo Buttafuoco, il ballerino Roberto Bolle), e presieduto dall'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Garanti riottosi e litigiosi fra loro, visto che l'anno scorso fu uno di loro, lo storico (almeno uno!) Galli della Loggia, editorialista principe del Corriere della Sera, ad accusare sul primo quotidiano italiano i governi Prodi e Berlusconi «di sostanziale incapacità organizzativa e della mancanza di un progetto complessivo» spingendo Ciampi a offrire le proprie dimissioni, poi prontamente rientrate come da prammatica repubblicana.
Festa all'italiana
Assai cospicuo il budget messo a disposizione in origine per i 350 festeggiamenti sparsi per la penisola: ben 1 miliardo di euro. Fondo caduto sotto la scure del ministro Tremonti (per una volta: bravo!), che già a metà 2009 dichiarava che quel miliardo non c'era più. Nel settembre scorso il suo collega alla cultura, il poeta Sandro Bondi, presentava al Capo dello Stato, l'ex comunista internazionalista Giorgio Napolitano, il calendario ufficiale del rito: ridotto a misera cosa rispetto agli intenti iniziali. Il piano originario era un faraonico elenco di elargizioni che con la ricorrenza c'entravano poco, ma c'entravano molto con il consenso: 6 milioni per un museo dell'arte nuragica a Cagliari, 100 milioni per la nuova sede dell'Istat a Roma, 42 per i restauri di Palazzo d'Accursio a Bologna, 17 al Polo archeologico di Canosa di Puglia, 8 per i restauri dell'Istituto per le Relazioni con l'Oriente di Macerata, 8 per la nuova sede dell'Herbarium Mediterraneo a Palermo, 7 per il restauro dell'hotel del Parco del Valentino a Torino, persino 10 per i "nemici" storici del Centro studi della Mitteleuropa di Udine. Dopo le forbici tremontiane, sono rimaste in piedi solamente undici opere: 7 già iniziate, altre 4 da finanziare integralmente. Queste ultime vale la pena di elencarle: l'Auditorium del Maggio Fiorentino (100 milioni previsti), il Palazzo del Cinema a Venezia, il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, l'Auditorium di Isernia (30 milioni previsti). Come si vede, il legame con la proclamazione del Regno d'Italia nell'anno di grazia 1861 resta opinabile. Ma tant'è: trattandosi dell'Italia, siamo di fronte ad una festa all'italiana. Dove si arraffa quel che si può sfruttando l'occasione propizia, in questo caso il mito dell'unificazione.
Risorgimento da riscrivere
Perché, e qui entriamo su un terreno più propriamente storico e culturale, di questo si tratta: di un mito. Ci provano, a inculcare l'idea di un'unanimità corale per un sentimento di Patria che non c'è, ma basta grattare un poco e si scorge subito la cartapesta. Non servono studi, sondaggi, statistiche: basta farsi un giro al bar e chiedere a quanti interessi il significato dell'augusto compleanno. Che poi vuol dire rispondere alla seguente domanda: l'Italia è oggi qualcosa di definibile come "terra dei padri" (chè questo significa "patria")? E' nel qui e ora che si dovrebbe trovare quel collante immediato, naturale, comune, profondamente e diffusamente sentito che è il patriottismo. Un collante che negli Italiani non esiste. E non esiste per il semplice motivo che non possediamo un'immagine condivisa e rispettata del passato unitario. Per forza: l'unificazione risorgimentale è stata affare di sparute minoranze idealiste e soprattutto campo di manovra di una potenza regionale, il Piemonte dei Savoia, che ha fatto e disfatto tutto il possibile per mangiarsi lo Stivale. Plebisciti taroccati, repressioni contro i ribelli (fatti passare per "briganti"), centralismo schiacciasassi su una plurisecolare realtà di ricchi particolarismi, terra bruciata dell'economia meridionale a tutto vantaggio di quella lombardo-piemontese, negazione della questione sociale (differenza fra paese reale e paese legale) e della questione locale (le tradizioni politiche, civili e culturali pre-unitarie): fu una strage, voluta e programmata, di ciò che i popoli italici erano stati fino a quel momento.
Attenzione: fino ad allora, il senso patrio per quei popoli era dato non dalle conformazioni statali che nei secoli si succedettero caoticamente, magari sotto il tallone dello straniero (francese, spagnolo, austriaco, etc). Tranne eccezioni, come la Serenissima Repubblica di Venezia, i regni si erano creati e rimescolati sulla base di convenienze ed esigenze di pura realpolitik. Tuttavia resisteva rigoglioso un sostrato costituito dalle molto più solide e popolari usanze comunitarie, che solo la modernità e lo Stato unitario hanno in gran parte spazzato via in questi ultimi 150 anni. Gl'italiani, in altre parole, non hanno mai avuto una patria intesa come identificazione di Stato, Nazione, Popolo. Nè quando era un crogiolo di rissosi staterelli, nè tanto meno quando venne inglobata come un carciofo nel regno sabaudo. Hanno sempre e solo avuto attaccamento per il proprio piccolo microcosmo di volta in volta municipale, regionale o altro.
Arci, anzi anti-italiano
Da un punto di vista politico, insomma, non esistettero mai nemmeno le cosiddette piccole patrie. Se non per riconoscenza che le popolazioni davano agli Stati pre-risorgimentali in cambio della più o meno larga possibilità che essi lasciavano alla particolarità locali per sussistere e prosperare (in questo, e solo in questo senso, secondo noi, andrebbe recuperato e attualizzato il concetto di piccola patria). Ciò che rendeva italiani gl'Italiani prima del 1861 era il fatto che, giustamente, se ne stavano abbarbicati sulle proprie specificità difendendole gelosamente dall'ingerenza del potere statale di turno. L'italiano era tale per definizione perchè si sentiva un non-italiano. Era milanese, fiorentino, romano, genovese, salentino, sardo, siciliano. Ma italiano, no. E neppure asburgico, borbonico, papalino o devoto al reuccio sopra di lui.
Bisognerebbe prendere atto in primo luogo che tale localismo allergico all'amor di qualsiasi autorità è rimasto - anche se oggi, inquinato alle midolla, si mischia con l'individualismo consumistico tipico dell'Occidente moderno, demolitore di ogni tradizione e memoria, e perciò di ogni rispetto patrio. E in secondo luogo che esso, fatto di campanili, piane, valli e al massimo regioni linguistiche (dialettali), è l'autentica ricchezza dell'espressione geografica chiamata Italia. D'Azeglio ha perso: gl'Italiani non si sono mai fatti. Altro che Unità .
Alessio Mannino
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