La crisi può avviare un nuovo modello di sviluppo rispettoso
Mercoledi 21 Marzo 2012 alle 11:53 | 0 commenti
Da VicenzaPiù n. 230
Di Roberto Ciambetti, Assessore regionale al bilancio Lega Nord
Diciamo che la crisi economica che stiamo vivendo, e che viene presa come scusa per attaccare le conquiste del mondo del lavoro, non è causa di una svolta epocale cui stiamo assistendo: essa è la conseguenza di una mutata organizzazione sia dei fattori produttivi, sia della redistribuzione di redditi, sia infine di mutati modelli di consumo. La crisi non deve essere presa a pretesto per smantellare lo stato sociale.
Detto questo, con altrettanta chiarezza dobbiamo dire che, in un mondo mutato, davanti alla riorganizzazione del capitalismo, bisogna avere il coraggio di affrontare una radicale riforma anche del mercato del lavoro; ma la riforma va guidata, governata e non lasciata nelle mani di sedicenti, quanto onniscienti, tecnici, in realtà espressione di potenti lobby.
Governare, in questo caso, significa dialogare con le parti sociali e senza timore prendere decisioni. La riforma del lavoro è urgente, ma non deve essere fatta per superare l'emergenza di oggi, ma per assicurare certezze a chi abita il futuro, i giovani e non solo. Certezza è l'esatto contrario di quell'incertezza che caratterizza i nostri giorni: ci sono troppi giovani dai lavori precari che non possono guardare al domani; ma vive l'incertezza anche il lavoratore che non sa quando potrà andare in pensione, vive il precariato e l'incertezza il lavoratore ultracinquantenne che teme di essere espulso dal mercato del lavoro e che magari ha non solo figli a carico, ma anche parenti anziani, perché, non dimentichiamolo, il welfare italiano funziona grazie al ruolo tanto straordinario quanto non riconosciuto dallo stato che hanno le famiglie. Ripeto cose che ho detto pubblicamente, non da ultimo ad un confronto pubblico con il senatore Ichino: l'incertezza di oggi genera paura e spiana la strada a tensioni sociali con esiti potenzialmente devastanti. Oggi il welfare deve essere difeso adeguandolo in termini realistici alle sfide poste dalla globalizzazione, bisogna smontare e rimontare il meccanismo dello stato sociale, non smantellare lo stato sociale: ecco perché guardo alla flexicurity come a una soluzione possibile. Potendo ancorare in Veneto parte del reddito che oggi dirottiamo verso lo stato , si potrebbe sperimentare, senza carichi aggiuntivi per imprese e lavoratori, concretamente, la via veneta alla flexicurity fino al modello danese, il più ricco e garantista.
Dobbiamo fare un salto di qualità : il problema non è garantire il posto fisso, ma assicurare il reddito: il lavoro si può cambiare, non deve mutare la certezza dello stipendio e dei mezzi di sussistenza, anche attraverso adeguati ammortizzatori sociali, ma anche attraverso un adeguato sistema di riformazione professionale che permetta al lavoratore di guadagnare una nuova professionalità . Chiaramente, bisogna rivedere anche le strutture dei servizi all'impiego rifondando queste agenzie sulla base delle nuove esigenze. E tutto ciò è possibile ancorando qui i soldi che il sistema qui produce.
Ciò significherebbe reinvestire nel proprio domani, nel proprio territorio, investire nella cultura del lavoro e del risparmio, l'esatto contrario della cultura dell'economia di carta, quella finanziaria basata sul consumo anticipato di risorse future, siano esse economiche, finanziarie o ambientali. Da una parte il lavoro, dall'altra la speculazione.
La crisi, dunque, può esser presa come scusa per avviare un nuovo modello di sviluppo rispettoso? Sì, dico di sì. Rispettoso di chi? Dell'ambiente, certo, della qualità del vivere, sicuro: qualità della vita non è solo un portafogli gonfio, ma anche aria respirabile, assistenza per i più deboli, città vivibili, tranquillità , serenità , sicurezza in senso lato.
Come gestire, in questo scenario, il rapporto con il lavoratore straniero? Di certo non possiamo permettere che la manodopera extracomunitaria venga usata per costruire una massa di manovra di riserva a cui ricorrere per tenere artificiosamente basse le retribuzioni.
In Italia non è lo stipendio del lavoratore (italiano o straniero) ad essere elevato, ma il costo del lavoro ad essere troppo alto, con il paradosso di retribuzioni sotto la media europea, costo per l'impresa elevatissimo, e costo della vita per il lavoratore, almeno nel Nord Italia, in sintonia con l'Europa: un lavoratore in Italia percepisce circa la metà dello stipendio di un suo collega tedesco ma non ha lo stesso livello di servizi e di welfare. Eppure l'economia tedesca funziona la nostra no. E' anche vero che in Germania un presidente della Repubblica si dimette per avere avuto un mutuo fin troppo agevolato, mentre in Italia c'è chi (anche nei governi tecnici) s'è ritrovato a pagare poche migliaia di euro appartamenti vista Colosseo o ad avere gratis lussuose vacanze in alberghi di lusso o a vivere la singolare coincidenza di un nucleo familiare, madre, padre e figlia tutti cattedratici docenti - posto fisso - nella stessa università ...
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