In uscita e in entrata, flessibilità è la parola d'ordine di Apindustria
Venerdi 30 Marzo 2012 alle 21:00 | 0 commenti
Da VicenzaPiù n. 231
Di Filippo De Marchi, presidente di Apindustria Vicenza
Sulla necessità di difendere i diritti acquisiti e il posto di lavoro sembrerebbe che da una parte ci siano i "buoni", che appunto difendono il posto di lavoro e gli diritti acquisiti (ma quali?) e i "cattivi", che invece vorrebbero approfittare della crisi per togliere di mezzo, appunto, anche qualche diritto, argomentando che così avremo tutti più posti di lavoro.
Bene, parliamone, partendo da alcuni presupposti, che mi paiono oggettivi. Tendenzialmente, l'imprenditore sano: a) non ha interesse a sbarazzarsi della gente in gamba, b) vorrebbe potersi sbarazzare all'istante della gente non in gamba, c) soprattutto, desidererebbe poter decidere unilateralmente chi è in gamba e chi no (o chi lo era, o lo sembrava, e non lo è più, o ha disatteso le promesse).
I "diritti" nascono soprattutto per gestire quest'ultima tendenza, ma poiché l'enunciazione dei diritti non può che avere carattere generale, si creano naturalmente ampie zone d'ombra, nelle quali possono trovare facile rifugio tutte le situazione nelle quali non è assolutamente incontrovertibile la grave colpa del lavoratore. Se a questo aggiungiamo lo storico bizantinismo e il formalismo del nostro sistema giuridico, uniti a una amministrazione della giustizia ormai al collasso e profondamente sperequata, anche nei tempi di risposta alle controversie (180-200 giorni per definire una causa di licenziamento a Torino; fino a 693 a Roma); se a tutto ciò aggiungiamo pure quella che in gergo tecnico si definisce "aleatorietà del giudizio", ovvero la possibilità che il giudice sbagli (non per niente, esistono 3 gradi di giudizio), capiamo facilmente che la "difesa dei diritti" rischia spesso di tramutarsi in una strenua difesa dell'esistente e delle rendite di posizione che ne conseguono, spesso basata più su argomentazioni formali che sostanziali. E questo, tanto in relazione a licenziamenti per motivi economici (esubero di personale, anche collettivo), quanto a licenziamenti dai presupposti del tutto diversi, come quelli disciplinari.
Il problema principale è quindi quello di coniugare l'indiscutibile necessità di tutelare i lavoratori da discriminazioni e prevaricazioni, con l'esigenza di non vedere compromettere la competitività e quindi la sopravvivenza di un'azienda.
Si sostiene che questo sarebbe, invece, un falso problema, perché i casi di applicazione dell'art. 18 sono pochissimi: come dire che le bombe nucleari non sono un pericolo, perché tanto sono state usate solo un paio di volte... Proprio come queste, invece, l'art. 18 ha soprattutto una funzione deterrente, che però troppo spesso costringe anche imprenditore "normali", cioè privi di particolari intenti persecutori nei confronti di chicchessia (e sono la maggioranza, per fortuna), a preferire il rischio derivante da un'obiettiva inefficienza aziendale, piuttosto che quello, economicamente rilevantissimo e, di fatto, imponderabile, derivante da una causa persa con l'applicazione dell'art.18.
Premesso quindi che io non sono favorevole al disarmo tout court, credo sia opportuno calibrare meglio, senza eliminarle, le tutele previste dall'art. 18, agendo su due versanti:
applicandolo integralmente ai casi di discriminazione e ai licenziamenti disciplinari;
negli altri casi, riservandone almeno l'applicazioni alle violazioni sostanziali e non anche a quelle semplicemente procedurali.
Posto che la flessibilità in uscita non può essere l'unica risposta alla "disperazione dei giovani e di chi non ha lavoro", è necessario migliorare la flessibilità in entrata e, per far questo, occorrerebbe non soltanto superare la moltitudine di forme contrattuali disponibili e le diversità di applicazione (si pensi al lavoro a progetto, che nella pubblica amministrazione può essere instaurato anche senza "progetto"), ma anche superare un equivoco di fondo: gran parte delle forme contrattuali atipiche e temporanee non sono utilizzate per far fronte a esigenze contingenti o straordinarie, ma semplicemente per "provare" adeguatamente il lavoratore. Una riforma molto semplice e a "costo zero", che si potrebbe quindi fare subito, è la modifica dell'art. 10 della legge 604/66, che limita il periodo di prova a sei mesi: se lo si portasse ad un anno e si prevedesse, contestualmente, che tutte le clausole dei contratti collettivi che prevedono durate inferiori mantengano la loro validità solo fino alla scadenza dei contratti collettivi stessi (come fu fatto, nel 2011, con la riforma del lavoro a tempo determinato), si consentirebbe ipso facto alle imprese di disporre di uno strumento di inserimento e valutazione dei lavoratori, congruo nella durata e sicuro nell'applicazione, eliminando quindi molte delle attuali ritrosie nell'instaurazione di rapporti di lavoro stabili. Dal punto di vista dei lavoratori, invece, la "prova lunga" avrebbe il vantaggio di non poter essere, a differenza dei contratti precari, prorogata o reiterata: una volta superata positivamente, quindi, il rapporto si stabilizzerebbe.
Sulla questione, poi, della conflittualità tra immigrati e locali credo che il problema non riguardi specificamente il mondo del lavoro, ma la società in generale, che da un lato è stata portata a considerare l'immigrazione come una semplice fonte di manodopera meno costosa e resa più disponibile dallo stato di necessità , ma anche meno qualificata: non per nulla, evitiamo accuratamente di importare "cervelli" stranieri (oltre a far fuggire quelli indigeni), che pure potrebbero dare più di qualche contributo allo sviluppo delle nostre imprese. Dall'altro lato si sono talvolta trascurati, in nome di un malinteso ecumenismo sociale, i risvolti culturali e l'impatto, anche in termini di sicurezza "percepita", causati da alcune ondate migratorie massicce e non controllate.
Per le associazioni datoriali, infine, l'avere più libertà nei confronti del lavoro (art. 18) e un maggior accesso al credito sono due problemi diversi, ma entrambi fondamentali: la "libertà nei confronti del lavoro" non si esaurisce nell'art. 18 e non si significa semplicemente "avere le mani libere", bensì avere un quadro di regole eque e certe, favorendo così non solo la competitività di chi vuol restare in Italia, ma anche l'ingresso di investitori stranieri; è un problema che riguarda il lavoro, ma anche e soprattutto la fiscalità d'impresa, che per la sua complessità e onerosità è sicuramente il fattore che più pregiudica la competitività delle imprese italiane. L'accesso al credito, anch'esso attraverso regole e oneri certi, è altrettanto vitale, perché il credito rappresenta la "benzina" del motore imprenditoriale: toglierla, significa semplicemente costringere la "macchina" impresa a restare ferma.
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