Cronache di un reporter montecchiano a Vancouver, dove non esiste la parola "extra"
Martedi 22 Maggio 2012 alle 10:01 | 0 commenti
Da VicenzaPiù n. 234
Quando si arriva per la prima volta in una metropoli nordamericana, la sensazione è quella di entrare in un telefilm. Quelle vie, quelle case, quelle macchine, quelle catene di fast-food, quei grattacieli: diavolo, esistono davvero. E sono proprio così, come li si vede in televisione. Questo è il primo impatto una volta varcata la dogana. Ma, superata la banale meraviglia dei primi momenti, sono le piccole cose che rivelano la vera natura delle comunità che si va ad incrociare.
E a Vancouver, estremo sud-ovest del Canada, una di queste piccole cose è un gioco molto caro a noi italiani: la partita di pallone. Ogni pomeriggio, a qualsiasi ora, si può andare al centro sportivo a due passi dal centro città e dallo stadio in cui si sono celebrate le Olimpiadi invernali nel 2010. E, totalmente gratis, giocare su due campi regolari in erba sintetica, perfetti e dotati di ogni tipo di porta o portina. Si arriva, ci si saluta e si inizia a giocare con ragazzi provenienti da Italia, Spagna, Brasile, Venezuela, Colombia, Messico, Inghilterra, USA, Canada, Corea del Sud, Giappone, Vietnam e China. Cose che neanche l'Inter dei bei tempi andati con 11 stranieri in campo.
Il tutto nel cuore di Chinatown, quartiere dove i segnali sono in doppia lingua. No, non inglese e francese, le due lingue ufficiali del Canada. Qui sulla costa del Pacifico il francese lo parlano solo i turisti. I segnali sono in inglese e in cinese, le due lingue più parlate nel mondo (e a Vancouver). E nessuno si sogna neanche lontanamente di lamentarsi o di chiedere la rimozione delle scritte in cinese. Senza contare quelle in coreano, vietnamita o indiano che sovrastano la soglia di migliaia di negozi e ristoranti aperti da immigrati provenienti dall'Asia.
Il fatto è che qui si sentono tutti parte della stessa comunità perché tutti hanno effettivamente uguali diritti e opportunità . E proprio per via di questo effettivo rispetto e riconoscimento a priori, che non ha nulla a che fare con la razza o il paese di nascita e provenienza, qualsiasi immigrato si sente profondamente in dovere di rispettare e contribuire per quello che può e come può. E lo fa, lo fanno tutti.
Per motivi geo-politici ovviamente in Canada la parola extracomunitario non ha alcun senso. Ma lo stesso concetto di "extra" - come nella provincia vicentina spesso si suol chiamare l'immigrato con un mal celato retrogusto di disprezzo - non ha senso. Qui c'è il buon cittadino e il cattivo cittadino, al limite. E infatti sui giornali non si vede un titolo che sia uno in cui si sbatte in prima pagina l'una o l'altra nazionalità . Per titoli del tipo: "Cinese ruba al supermercato", "Italiano rapina banca" o "Messicano stupra ragazza canadese" cadrebbero le teste dei direttori.
Ecco, è questo che significa meritocrazia - parolone con cui si riempiono la bocca in tanti giusto il tempo di beccare due applausi in uno studio televisivo -: giudicare (premiare o punire) sulla base di quello che si fa e non su quello che si è. A Vancouver funziona così. Nel Vicentino?
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