CorSera: Gli errori sulle banche
Mercoledi 14 Dicembre 2016 alle 09:32 | 0 commenti
 
				
		
		Non aver capito quanto fosse urgente dare stabilità alle nostre  banche è stato forse il maggior limite del governo di Matteo Renzi.  Quanti voti ha perso, un anno fa, quando il Consiglio dei ministri  approvò il decreto —  proposto da Bankitalia e ministero dell’Economia —  per salvare quattro banche del Centro Italia azzerando, oltre al valore  delle azioni, anche i titoli subordinati detenuti da oltre 10 mila  piccoli risparmiatori in molti casi raggirati da quelle banche?      È   stata singolare e ben poco lungimirante la scelta dei governi degli  ultimi anni di lasciare macerare i problemi delle nostre banche. Certo,  affrontarli significava stanziare cifre importanti che avrebbero fatto  lievitare il debito pubblico.
		
Ma soprattutto avrebbe richiesto dare  risposte a quei risparmiatori che hanno creduto a ciò che per anni hanno  raccontato i banchieri. In alcuni casi avrebbe significato far venire  alla luce responsabilità che risalgono ai tempi, non poi così lontani,  in cui era la politica a gestire le banche.  La vicenda del Monte  dei Paschi di Siena è emblematica. Avrebbe anche significato spiegare  agli italiani perché, quando l’Unione Europea propose la direttiva sul  bail-in, governo, Parlamento, Consob, Banca d’Italia, tutti la  accettarono senza fiatare e soprattutto senza spiegare ai risparmiatori  che dal giorno dopo alcuni loro investimenti sarebbero stati meno  sicuri. Il governo di Paolo Gentiloni rischia oggi di ripetere  quegli errori. Anche perché il ministro dell’Economia è il medesimo che  un anno fa propose quel decreto e che da quasi tre anni spera che vi  siano investitori internazionali disposti a mettere cinque miliardi di  euro nella banca senese. Non si sono trovati in tre anni: perché si  dovrebbero trovare in due settimane, entro il temine fissato dal braccio  della Bce responsabile per la vigilanza bancaria? Un termine deciso non  oggi, ma comunicato al governo e alle banche nel luglio scorso, sei  mesi fa. Se esiste ancora una strada che eviti la  nazionalizzazione, questa probabilmente passa, come un anno fa,  attraverso una perdita rilevante per i piccoli risparmiatori che  detengono i titoli subordinati del Monte. Li avevano acquistati in 40  mila —   sebbene da allora alcuni potrebbero averli venduti, quanti non  si sa — con un investimento medio di 50 mila euro ciascuno. La banca  nega che possano subire una perdita.  Sostiene che la proposta di  convertire questi titoli in azioni, non comporti alcuna perdita, anzi  potrebbe essere conveniente. Se la banca offre loro azioni al valore di  borsa attuale (circa 20 euro) essi, con poco più di 2 miliardi,  divengono proprietari del 48% circa della banca. Ciò significa valutare  il Monte 4,8 miliardi. Il patrimonio netto del Monte (dopo le  svalutazioni e la conversione) vale circa 9 miliardi, quindi essi  comprano azioni a 0,53 volte il valore degli attivi. Un buon affare? Dipende:  le azioni di Ubi valgono di meno (0,3 volte il patrimonio netto),  quelle di Unicredit (dopo l’aumento di capitale varato ieri) più o meno  lo stesso, 0,6. Il problema è se il patrimonio netto del Monte valga  davvero 9 miliardi: se scoprissimo valesse di meno, magari perché ci  sono ancora sofferenze nascoste, per i piccoli azionisti la conversione  sarebbe un pessimo affare. Ancor peggio se la banca dovesse in futuro  emettere nuove azioni che diluirebbero il valore di quelle vecchie. L’alternativa  è la nazionalizzazione previo rimborso dei piccoli risparmiatori. Se si  arrivasse a questo, e lo Stato divenisse l’unico azionista del Monte,  qualcuno dovrà spiegare quanto è costato rimandare così a lungo.  Possiamo sapere a quanto ammontano le parcelle finora pagate alle due  banche d’affari, Mediobanca e J.P. Morgan, incaricate di trovare  azionisti privati e di garantire, tramite prestiti ponte, sufficiente  liquidità alla banca? Perché nel caso di una nazionalizzazione quelle  inutili parcelle le pagherebbero i contribuenti.  Se si arriverà  ad un intervento dello Stato è importante che questo non si limiti a  Siena. Bisogna evitare di continuare nella colpevole e cinica  sottovalutazione dei problemi di altre banche importanti che potrebbero  in un prossimo futuro trovarsi in difficoltà. È il caso delle popolari  venete, di Carige e non solo.  La cifra necessaria per dare  stabilità alle nostre banche è rilevante: alcuni analisti dicono 40  miliardi. E potrebbero non bastare se non si ferma l’emorragia di  prestiti non rimborsati. Un intervento di questo ammontare varrebbe  circa il 2,5% del Pil. In altri Paesi il costo è stato ben più elevato.  La crisi bancaria irlandese ha richiesto misure pari al 30% del Pil;  quella spagnola il 10%; le crisi delle banche scandinave negli anni  Novanta costarono il 9% del Pil in Finlandia, i 4% in Svezia. Ma questi  denari sono poi stati in gran parte recuperati quando lo Stato, dopo  aver stabilizzato le banche, le ha rivendute. Lo stesso è accaduto dieci  anni fa negli Stati Uniti. Il nuovo governo deve evitare il  rischio di una tempesta perfetta: correntisti spaventati che abbandonano  le banche più deboli e investitori che voltano le spalle a un Paese  troppo indebitato. Ci si rende conto che il tempo sta per scadere?
Di Francesco Giavazzi, da Corriere della Sera
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