Concia, la fine dell'Eldorado
Domenica 18 Ottobre 2009 alle 08:00 | 0 commenti
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Nella Valle del Chiampo continua il periodo no del distretto conciario
Le inchieste della guardia di finanza sono l'ultimo episodio
di un malessere che ha origini lontane. E tutte interne al sistema
"È un'enclave strana, un sistema produttivo originale, con poche similitudini con altri settori come quello dell'oro o della ceramica, che pure erano articolati attorno alle piccole aziende". Fernando Dal Zovo, ma tutti lo chiamano Nando, ha cominciato a lavorare con le concerie nel 1966. Ha smesso nel 1997, e da allora le segue a livello sindacale (è responsabile del settore per conto della Cgil) e politico (è stato consigliere comunale ad Arzignano). In pochi, probabilmente, possono vantare la sua conoscenza della storia, dello sviluppo e, adesso, della crisi del distretto produttivo della vallata del Chiampo. Un piccolo Eldorado costruito sulla lavorazione delle pelli che per decenni ha distribuito stipendi generosi ai lavoratori e profitti consistenti per gli imprenditori, e che adesso arranca. Piegato dalla concorrenza internazionale e dalla crisi generale, certo, ma soprattutto dalle proprie contraddizioni interne. Last but not least, l'elaborato sistema che una serie di aziende aveva escogitato per evadere l'Iva e che è stato scoperchiato dalle recenti indagini delle guardia di finanza.
L'Eldorado
Per chi non è nato a Chiampo, Arzignano e dintorni, può essere difficile capire l'impatto del mondo della concia su quelle realtà . Ma da quelle parti tutto, o quasi, ruota attorno al cuoio e alle pelli. "Direi che a livello economico ed occupazionale, e quindi anche come reddito e ricchezza prodotta, la concia rappresenta un tre quarti della nostra realtà - osserva Stefano Fracasso, ex sindaco di Arzignano -. Direttamente o indirettamente: tenete conto della concentrazione del distretto, che vede centinaia di aziende racchiuse in un fazzoletto di terra, e di tutto il mondo che ci ruota attorno, come servizi, finanziarie, assicurazioni".
Non per niente Arzignano è una delle capitali mondiali della concia. "L'industria conciaria italiana è leader mondiale del settore - riporta una ricerca del centro studi BancaIntesa nel 2006 -, realizzando il 20 per cento della produzione mondiale e il 70 per cento di quella europea". E se l'Italia è il leader mondiale, la Valchiampo è la sua punta di diamante: sempre secondo lo studio BancaIntesa, quasi un terzo delle imprese, circa il 40 per cento dei lavoratori e oltre la metà del valore della produzione della concia italiana sono racchiusi nella ventina di chilometri che separano Montebello da Chiampo. Con un fatturato complessivo che oscilla tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro all'anno. "È un sistema forte, ed estremamente complesso - aggiunge Dal Zovo -. Un sistema integrato formidabile nella sua capacità di autoservizio, cioè di coprire tutte le esigenze delle aziende. A parte la materia prima, che arriva da fuori, e i mercati di sbocco, che sono soprattutto all'estero, non c'è una richiesta di un'azienda che non possa essere soddisfatta a livello locale nel giro di poche ore: dai materiali alla riparazione dei macchinari, dalle consulenze alla manutenzione degli impianti, c'è tutto". E formidabile era anche la capacità del settore di distribuire ricchezza. A tutti. "Per quarant'anni questa è stata la vallata dell'oro. - continua Dal Zovo -. La ricchezza era palpabile, solida. La potevi vedere, quasi toccare, nelle case, nelle ville, nel territorio".
La morìa
Negli ultimi due anni però, il meccanismo ha mostrato scricchiolii evidenti. La crisi scoppiata nel 2008 si è abbattuta su un mondo che stava già faticando. Con effetti disastrosi. Dall'apertura della prima procedura per una cassa integrazione straordinaria, nel luglio 2008, è stato un susseguirsi di crisi aziendali, chiusure, mobilità . "A fine 2007 il settore aveva, in provincia, circa 12 mila addetti - commenta Antonio Bertacco, sindacalista della Uil -. Tra 2008 e 2009 abbiamo perso un migliaio di posti di lavoro, e per la fine del 2009 si prevede di arrivare ad un cifra di circa 10.500". "E questo limitandosi alle sole uscite, senza contare gli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione", gli fa eco il collega Igor Bonatesta, sempre delle Uil. Una vera e propria morìa ("a fine 2007 le aziende, in provincia, erano 780; adesso siamo a meno di 650", aggiunge Bertacco), che però colpisce a macchia di leopardo all'interno di un settore estremamente variegato. I grandi gruppi, o le grosse fabbriche con centinaia di dipendenti, si contano sulle dita di una mano (il gruppo Mastrotto, la Rino Mastrotto, la Pasubio e qualche altra), e sono quelle che reggono meglio il momento, forti di un'organizzazione consolidata e di dimensioni tali da garantire un certo controllo sul proprio mercato. Le aziende medie o medio grandi hanno risultati altalenanti: qualcuna va bene, qualcuna stenta, altre sono in forte difficoltà . Ma a soffrire di più sono soprattutto le piccole e piccolissime aziende, quella miriade di contoterzisti che non ce la fa più a reggere un mercato in cui la concorrenza sul prezzo è sempre più esasperata. "Il 70 per cento della sofferenza è nelle aziende medio-piccole che lavorano per conto terzi", conferma Bonatesta.
Origini lontane
Sarebbe sbagliato, però, attribuire tutta la responsabilità alla crisi degli ultimi due anni. Anzi, nel distretto della concia il crollo dell'economia mondiale non ha fatto altro che far esplodere una bolla già vicina al punto di saturazione. Il crollo dei mercati e la competizione spietata che arriva dall'Estremo Oriente o dal Sudamerica c'entrano, ma le ragioni vere sono altre, strutturali, e hanno origini molto lontane. "Il settore si è sviluppato molto a partire dagli anni '60 - è ancora Nando Dal Zovo a parlare -, e si è sviluppato con caratteristiche molto artigiane. Il principio base era lavorare, lavorare, lavorare. Spesso dall'alba al tramonto. Il punto è che non c'era abbastanza manodopera per organizzarsi con dei turni; quindi, quando c'era del lavoro da fare chi era in grado di eseguirlo restava in fabbrica ad oltranza. Era anche un retaggio del mondo contadino in cui si lavorava, appunto, dall'alba al tramonto. Questo meccanismo è stato trasferito pari pari nella fabbrica".
Un meccanismo infernale, in cui il guadagno era proporzionale ai volumi prodotti, e il modo più semplice per alzare la produzione era lavorare a ritmi folli: straordinari su straordinari, sabati e domeniche in fabbrica. "Le figure scolastiche erano rare - continua il sindacalista Cgil -. Fino a una quindicina di anni fa trovare un laureato in conceria era un'impresa. C'erano i tecnici degli istituti conciari, certo, ma c'erano anche tanti praticoni che copiavano e sperimentavano da sé. Del resto la crescita era talmente rapida che non c'era tempo per la formazione: bisognava produrre". Nell'ultimo ventennio molte cose sono cambiate: soprattutto nelle aziende più grandi l'organizzazione è cambiata e le figure professionali specializzate sono oggi la norma. Ma alla base c'è ancora lo stesso principio di fondo: lavorare, lavorare, lavorare.
Affari facili
Una logica che ha fatto la fortuna di tante persone, ma che oggi è forse la causa principale del tracollo. "È un sistema che ha una concorrenza interna fortissima e tutta basata sul prezzo - aggiunge Bonatesta -. Si cerca di offrire la merce ad un centesimo in meno di quanto fa il proprio vicino. E il modo più rapido per ridurre i costi è aumentare la produzione. In questo modo, però, si è arrivati al punto di non ritorno". L'inizio del declino è stato, paradossalmente, a metà degli anni '90. Paradossalmente perché all'epoca quasi nessuno se ne accorse. "All'epoca il settore era ormai maturo - riprende l'analisi di Dal Zovo -. Aveva strutture decenti, stava cominciando ad affrontare le tematiche ambientali, e aveva grandi capacità produttive. Successe però che il governo svalutò la lira, e questo spianò un'autostrada per le aziende: la concorrenza dei paesi in via di sviluppo era ancora debole, e con la lira svalutata vendere all'estero era facilissimo".
Bastava produrre per trovare mercati e fare profitti. E così si continuò a lavorare sulle grandi quantità , invece che puntare sull'alta qualità . Il risveglio, brusco, arrivò con l'entrata in vigore dell'euro. Ma non fu sufficiente a innescare un'inversione di rotta. Con qualche eccezione (soprattutto le aziende più grandi hanno da tempo spostato la produzione sui prodotti di più alto livello), il meccanismo di base è rimasto ancorato agli elevati standard di produzione e alle giornate lavorative di dodici ore. Per tutti i primi anni 2000, la produzione è stata in crescita, e i fatturati pure. Quello che calava erano gli utili: "Il 2003-2004 è stato l'anno di maggior produzione, ma dal punto di vista dei risultati è stato uno degli anni peggiori - spiega Dal Zovo -. In quegli anni, apparentemente d'oro, abbiamo cominciato a vedere le aziende indebitate e gli effetti della scarsa capitalizzazione. La crisi c'era già , sotto traccia". E quando le difficoltà locali hanno incrociato il rallentamento dell'economia mondiale, e poi la recessione, il bubbone è scoppiato. Con situazioni a volte paradossali: ci sono state aziende che hanno aperto la procedura di mobilità con gli operai che, dentro, lavoravano dodici ore al giorno, domeniche comprese: di ordini ce n'erano fin troppi, ma il lavoro non bastava più a rientrare dai costi.
Il problema evasione
Ad aggravare il tutto c'è poi un altro meccanismo. Parlare di dodici o quattordici ore di lavoro al giorno, o di sabati e domeniche trascorsi a conciare in azienda, vuol dire ammettere l'esistenza di una parte di salario che veniva pagata in nero. Secondo i sindacati il sistema era diffusissimo: gli operai ricevevano il loro stipendio base, calcolato sulla settimana di 40 ore e su qualche straordinario, e poi generose aggiunte che servivano a coprire tutte le altre ore che non potevano essere messe in regola. Somme pagate spesso fuori busta, come si dice in gergo, e che in molti casi diventavano un vero e proprio stipendio bis: 1500 euro accreditati sul conto, e altri 5-6-700, a volte anche di più, brevi manu. E tutti contenti. "Da questo punto di vista è un sistema malato, perché non si è mai retto sulla giornata di otto ore", commenta Bonatesta. "C'era praticamente una doppia contabilità , una visibile e una invisibile. E questa la facevano tutti, grandi e piccoli; le eccezioni si contano sulle dita di una mano - aggiunge Dal Zovo -. Era una esigenza della filiera produttiva: c'era troppo lavoro e poco personale, nonostante gli immigrati, e quindi invece di fare i turni si lavorava tutti dodici ore". Negli ultimi anni, con l'evolversi dei controlli, mantenere in vita questo doppio binario è diventato sempre più complicato. Molte situazioni sono state regolarizzate. Altre hanno preso una piega più preoccupante: le ultime indagini della finanza, con l'arresto di una serie di imprenditori, hanno rivelato un presunto sistema di società di comodo creato solo per evadere l'Iva ed assicurarsi così vantaggi competitivi. "Fatico a credere che gli imprenditori siano le teste pensanti - osserva Dal Zovo -. Per creare un meccanismo del genere servono specialisti del settore fiscale, tributario, finanziario. Temo sia la punta di un iceberg, perché non avrebbe molto senso mettere in piedi un'operazione del genere per un numero limitato di aziende".
Futuro incerto
In attesa di eventuali sviluppi dell'inchiesta, il problema è far fronte alle pesanti ricadute sociali della crisi (vedi riquadro). E inventarsi una prospettiva per il futuro. "La nostra paura è che se davvero ci sarà la ripresa e passerà la crisi generale, noi qui ci ritroveremo sempre con la crisi del settore conciario", commenta Bonatesta. Qualche segnale incoraggiante c'è: settembre è stato uno dei mesi migliori da un paio d'anni a questa parte ("Lo vediamo dalle code ai nostri sportelli, che si sono ridotte di molto, segno che la gente sta lavorando", dicono alla Uil), e si respira un po' di ottimismo: "Le aziende strutturate cominciano a raccogliere i frutti del loro lavoro", aggiunge Stefano Fracasso. Pur acciaccato da chiusure e inchieste giudiziarie, poi, il distretto ha ancora una enorme vivacità interna. E, come sottolinea Antonio Bertacco, può contare su ricerca, tecnologia e professionalità di alto livello.
Potrebbe bastare, se si riuscirà a sconfiggere un altro dei mali oscuri dell'ex Eldorado vicentino: l'individualismo sfrenato, a tutti i livelli. In tutto il settore, in questo anno e mezzo di crisi nera, non c'è stato un solo contratto di solidarietà (ridurre a tutti l'orario di lavoro, e quindi lo stipendio, per evitare licenziamenti), anche quando le condizioni sembravano permetterlo. I lavoratori guardano prima di tutto alla busta paga. E le aziende pensano soprattutto a loro stesse, tant'è vero che anche dar vita al distretto della concia è stato difficile. "È in corso una guerra fratricida, dovuta al fortissimo individualismo e alla competizione sfrenata tra le aziende - conclude Dal Zovo -: nessuno passerà mai ad un collega un lotto di produzione che non riesce ad eseguire, piuttosto lavora 25 ore al giorno. Invece bisogna puntare all'integrazione per rispondere ad un mercato complesso. Dobbiamo convincerci che o ne usciamo tutti assieme, o moriamo tutti assieme. Perchè ci sono dei costi, su tutti quelli ambientali, che sono sostenibili solo dal sistema, non dal singolo imprenditore. Nessuno può cavarsela da solo". Conciari avvisati...
Case in vendita e pacchi della spesa
Il dramma delle famiglie
"La cosa che colpisce di più noi arzignanesi, è che la zona industriale il sabato mattina è tranquilla, quasi deserta. E questo, qui, è un evento straordinario". Parole di Stefano Fracasso, ex sindaco della cittadina del Grifo. Una Arzignano che, abituata a lavorare a ritmi forsennati per tutta la settimana, adesso guarda un po' spaesata alla calma portata dalla crisi.
Arricchitasi grazie al cuoio e alle pelli, e diventata per molti aspetti un cantiere sociale capace di sperimentare con anni di anticipo fenomeni che altrove sarebbero arrivati molto dopo, come quello dell'immigrazione massiccia (circa il 20 per cento della popolazione è straniera, "ma qui l'equazione straniero uguale insicurezza non vale - rivendica Fracasso -. Non abbiamo mai avuto problemi di questo tipo"), Arzignano deve adesso fare i conti con problematiche sociali sconosciute. Il boom della cassa integrazione e dei licenziamenti, ad esempio. "In Comune si è visto un aumento delle richieste ai servizi sociali - continua l'ex sindaco -. Per le difficoltà a pagare i mutui, le rette, le bollette, i classici segnali che manca la disponibilità economica. E le stesse indicazioni ci arrivano dal mondo del volontariato: la distribuzione delle cosiddette borse della spesa è cresciuta molto".
Del resto, per chi ha progettato un percorso di vita su uno stipendio generoso che spesso si aggirava sui 2mila euro al mese, trovarsi da un giorno all'altro in cassa integrazione o in mobilità , cioè con 700-800 euro a disposizione, è un dramma. "Se hai un mutuo da 900 euro, e ce ne sono tanti, lo sostieni se ne guadagni duemila - spiega Igor Bonatesta, della Uil -. Ma se ne prendi 1200, o 750, come fai?". Le difficoltà riguardano soprattutto i lavoratori stranieri, che non possono contare sulla rete di amici e parenti. Ma non solo. E le conseguenze cominciano a farsi sentire. "Nella sola Valchiampo ci sono 2000 appartamenti in vendita, perché le persone non ce la facevano più a pagare e le case sono passate a finanziarie e istituti di credito - aggiunge Antonio Bertacco, anche lui della Uil -. E ci sono famiglie che hanno rimandato in patria i figli, le mogli; altre che sono tornate a vivere insieme, in due o tre sotto lo stesso tetto, altri che stanno pensando di andarsene".
"E c'è un altro problema che sta cominciando ad emergere solo ora - riprende Bonatesta -. Chi ha cominciato la mobilità all'inizio della crisi sta finendo ora il periodo coperto dagli ammortizzatori sociali. Di solito questa gente non ha trovato un altro lavoro, e vengono qui a chiedermi cosa possono fare dopo. Il problema è che non c'è un dopo. Finita la mobilità non c'è più nulla, e di queste situazioni ne avremo sempre di più: sempre più gente che chiede lavoro, e sempre meno lavoro a disposizione. Significherà avere centinaia di persone che prendono zero euro al mese, che non potranno far altro che andare a bussare alle porte di Comune e Caritas". Il peggio, forse, deve ancora arrivare.
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