Ahmadinejad e l'Iran visto da vicino
Giovedi 2 Luglio 2009 alle 08:09 | 0 commenti
La propaganda occidentale fa passare la Repubblica di Teheran come una teocrazia repressiva. In realtà è una democrazia, solo diversa dalla nostra. Ecco cosa ci aveva detto il vicentino-persiano Nirou
Ma di quale "rivoluzione iraniana" vanno parlando i media occidentali? Tutti, dalla Cnn al più modesto giornaletto di provincia (anche qui dalle nostre parti), spacciano i tumulti di strada contro il verdetto elettorale che ha incoronato Mahamoud Ahmadinejad col 62,64% dei voti come un'insurrezione per la "democrazia". E' il solito dejà vu: siccome ha vinto l'uomo nero del momento, il mostro "antisemita" (in realtà è, legittimamente, antisionista, nello Stato musulmano con la più numerosa comunità ebraica fra tutti i paesi di fede islamica), l'anti-americano che tiene duro contro gli arroganti diktat americani sul nucleare, ergo le elezioni devono essere truccate, quando lo capisce anche un bambino che brogli tali da manipolare il 30% delle schede non sono possibili neanche nelle dittature più ferree. Ma la questione è un'altra: l'Iran non è una dittatura. E' una democrazia. Nazionale e islamica, però.
Falsi miti
La differenza ce la spiegava tre anni fa su queste colonne Morteza Nirou, iraniano trapiantato in Italia da più di vent'anni, cittadino italiano sposato con una cattolica e vicentino impegnato nel sindacato e nella lotta contro il Dal Molin americano. Nirou in questi giorni si trova dalla sua famiglia nel nord dell'Iran, ed è irreperibile. Ma allora così ci raccontava come stanno realmente le cose nel suo Paese d'origine: «In Iran ci sono elezioni, ci sono anche più giornali che in Italia, si può criticare la classe politica, ma tutto con un limite: non si può contestare l'Islam, base di tutto» ("Iraniano, islamico, comunista. Cioè italiano", VicenzaPiù, 8 ottobre 2006). Quando si sente definire il governo di Teheran una "teocrazia", dunque, è vero solo in parte, perché lo è fino a che la varietà d'opinione non metta in discussione le regole fondamentali del Corano. Che tra l'altro non sono affatto né quelle dei talebani, integralisti guerriglieri, né tanto meno quelle dei sauditi, alleati di un'America che in cambio del petrolio chiudono tutti e due gli occhi sull'inferiorità femminile, la tortura largamente praticata, i diritti civili e politici negati dai loro amici Saud. Nella Repubblica teocratica iraniana si può abortire fino al 45simo giorno, è ammesso il divorzio, l'operazione per cambiare sesso è pagata dalla mutua, la prostituzione è legale, il numero dei laureati è superiore al nostro, le donne votano e possono accedere a tutti i mestieri. E il movimento femminile, che esiste e prospera, non sente per nulla la fissazione occidentale per il velo. La chiama proprio così, Nirou: «Questa storia del velo è una fissazione: le donne iraniane hanno sì tanti problemi, ma non quello del velo. Esiste un movimento di emancipazione femminile molto avanzato, ma non certo per l'hijab».
Due pesi...
Tra l'altro, l'islamismo di Stato ha un contrappeso nel forte senso patriottico degli iraniani: «Nel mio Paese, più che la religione, conta l'identità nazionale, che è molto sentita», chiariva Nirou. «E' vero che i princìpi di fondo che regolano lo Stato sono quelli dell'Islam, ma essi si sono saldati a una millenaria cultura locale, quella persiana. E se oggi il governo iraniano non cede agli Americani sul nucleare non lo fa per ragioni religiose, ma per un forte orgoglio nazionale». Infatti è questo che brucia all'Occidente (che nel frattempo fa affari a tutto spiano con le industrie dei "cattivi" iraniani, in testa l'Italia che è fra i primi partner commerciali): questi signori col turbante non intendono piegarsi all'egemonia politica e militare degli Stati Uniti e ai consumi cari alle multinazionali americane ed europee. Perciò, è intollerabile che vinca un Ahamadinejad, ex pasdaran (guardiano della rivoluzione khomeinista), che rappresenta la gran parte della popolazione, quella più povera (perché non fanno mai vedere, sulle nostre tv, le immagini del'Iran delle periferie, rurale, attaccato, com'è suo diritto, all'identità nazionale e religiosa?). Ed ecco invece perché viene santificato un Mousavi, che durante la campagna prometteva (in inglese) che la sua elezione alla presidenza avrebbe assicurato "un nuovo saluto al mondo", frase che stava ad indicare che avrebbe cambiato la politica estera nei confronti di Washington e che avrebbe aperto alla cultura capitalista, roba che interessa solo la minoranza dei centri urbani. Insomma, ha ragione Ahmadinejad: "Per gli occidentali le elezioni sono valide quando vincono i loro amici, sono nulle se le vincono i loro avversari". Uno squallido doppiopesismo identico a quello per cui Israele è una nazione di santi e di eroi (benché dotata di bomba atomica, sprezzante di trattati anti-proliferazione e risoluzione Onu, munita di piani dettagliati per aggredire i nemici, autrice di decine di guerre, deportazioni, raid sanguinari) mentre l'Iran è uno "Stato-canaglia" (pur non avendo mai attaccato un vicino, semmai il contrario - guerra Irak-Iran - e avendo ottemperato a ogni disposizione Onu ed essersi sottoposto a tutte le ispezioni, insomma facendo ogni sforzo per la pace fuorchè svendere la propria dignità ).
Che poi, come Obama sa benissimo, ad avere in pugno il bastone del vero potere è la Guida Suprema, Kamenei, una sorta di Capo dello Stato con l'ultima parola su tutto (o quasi, visto che esiste un Consiglio dei Saggi, una sorta di conclave, da cui viene eletto e a cui deve far riferimento). Tutti i candidati al governo sono stati preventivamente "vistati" da Kamenei. Ma i sostenitori di Mousavi subiscono l'influsso (e forse qualcosa di più) delle potenze occidentali: scendono in strada, incendiano auto e cassonetti, spaccano vetrine, creano posti di blocco e affrontano la polizia che li carica e si fa scappare qualche morto, esattamente come a Genova nel 2001 o in tanti altri scontri di piazza, nel nostro civilizzato universo "democratico". Eppure all'estero si dipinge l'Iran come un regime dispotico, malvagio, preda di governanti fanatici, e così il sospetto che qualche manina straniera operi all'interno, per esempio tramite i servizi segreti, se permettete può venire. Ed è curioso constatare come i più duri stigmatizzatori nostrani di no-global e black-bloc, che in più di un G8 hanno fatto esattamente le stesse azioni, siano ora diventati degli apologeti dei violenti iraniani filo-occidentali. Contro i quali, ricordiamolo, si oppongono altrettanti giovani fedeli alla Repubblica, segno che una "primavera di Teheran" esiste solo nella nostra propaganda.
Il vero problema
La verità è che a noi piacerebbe un mondo che l'Iran tornasse ai "fasti" della Persia dello Scià Rehza Palehvi, zerbino dell'Occidente, dove un'esigua classe di privilegiati conduceva una vita di lusso mentre il resto della popolazione faceva la fame, le elezioni semplicemente se le sognavano e la polizia politica era più occhiuta e repressiva di quella degli ayatollah. Morteza Nirou, ex tecnico nucleare, comunista scappato dal regime dello Scià (e il comunismo, così come il capitalismo, nel suo Paese è un "peccato contro l'Islam") sintetizzava magnificamente il vero problema: «Gli Usa non possono negare il diritto a un altro Stato di dotarsi della tecnologia che si sceglie. Perché invece il Pakistan può avere la bomba? Perché è alleata degli Usa. Quello che dice Ahmadinejad non va preso alla lettera, è propaganda esattamente come quella come quella che si sente spesso da Bush sui nemici dell'America che vanno distrutti. Con la differenza che l'America distrugge davvero, basta guardare all'Irak e all'Afghanistan. E così fa anche Israele, che è l'unico Paese mediorientale a scatenare guerre. L'Iran, invece, è sempre stato pacifico, basta consultare un libro di storia per saperlo».
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