Zaia scrive ai veneti: un patto della comunità per il territorio
Sabato 5 Novembre 2011 alle 23:18 | 1 commenti
Luca Zaia, presidente della Regione del Veneto, ha "inviato" oggi questa lettera ai veneti
Care Venete, cari Veneti
a un anno dalla disastrosa alluvione che ci ha colpito duramente e avendo sotto gli occhi le immagini della tragedia ligure, avverto l'esigenza di condividere con voi alcune riflessioni. Ovunque in Italia, ma, per quel che ci riguarda anche nella nostra Regione, è necessario recuperare il tempo perduto. Si pensi soltanto che nel nostro Veneto l'ultima grande opera idraulica per difendere il territorio dalle sue acque è degli inizi degli Anni Trenta: poi, ottanta anni di buio.
Lungi da me la volontà di fare un processo al passato: erano altre le priorità , e le filosofie, su cui avevamo fondato il patto sociale. Con quel che abbiamo passato da un anno a questa parte, dobbiamo cambiare passo. E, per andare oltre, per non far apparire un impegno politico e amministrativo una ovvietà , occorre anche dirsi qualche verità scomoda. Ad esempio che, con l'attuale assetto normativo, costruire le grandi difese del territorio sarà tutt'altro che facile. Si tratta di condividere con le comunità una serie di grandi progetti, di trovare i finanziamenti, di cercare accordi che consentano gli espropri di ettari e ettari di terreno, di non dimenticarci che su queste aree che potrebbero essere allagate, ci sono abitazioni, che non si potrà più edificare, che si dovrà coltivare in un certo modo e non in un altro, che ci si dovrà , insomma, ricordare per che cosa possono venire utilizzate in caso di emergenza. E poi, va detto che si dovranno utilizzare, in corso d'opera, strumenti legislativi antiquati e farraginosi pensati più per tutelare egoismi che per passare all'azione. E, non ultimo, bisognerà trovare risorse in tempi di vacche magrissime. Il che significa tempi lunghi e battaglie dolorose.
Chi pensi di costringere questa situazione alle esigenze dell'attualità , o è in malafede o si chiama fuori dalla partita. Un esempio per capire le difficoltà legate alla costruzione delle casse di espansione: provate a pensare al tempo necessario per vedere una casa finita, dal tempo in cui la si immagina a quello dell'inaugurazione. Dobbiamo radicare la nostra progettualità , necessaria, alle esigenze della realtà vera. Esattamente ciò che abbiamo fatto nell'anno trascorso dall'alluvione: 250 cantieri per far fronte alla devastazione, tre casse di espansione progettate e finanziate e una decina di altre grandi opere già individuate come priorità .
Di sicuro, un rammarico ce l'ho, in quanto cittadino e in quanto amministratore e riguarda la grande quantità di risorse che non sono state utilizzate per questa primaria esigenza al tempo delle vacche grasse. Oggi, nei giorni in cui tutti si sentono esperti di alluvioni e di difese territoriali conseguenti, vale la pena ricordare che fino a quando il dramma non ci ha schiaffeggiato in prima persona, erano pochi e inascoltati i profeti della prevenzione. Inascoltati dalla politica, perché sovente ciò che paga elettoralmente non coincide con il bene comune.
Inascoltati dalle istituzioni che avevano e hanno l'obbligo della programmazione. Inascoltati dai tecnici che, a diversi livelli di responsabilità , hanno comunque avallato i nostri piani regolatori. Inascoltati dai cittadini, allora, spesso, distanti da tali problemi. Inascoltati dai mille comitati che nascono come funghi quando si vuol mettere mano a qualcosa. Oggi, che abbiamo a disposizione metà dei bilanci di allora, l'errore sociale appare ancora più grave, anche se le responsabilità hanno gradi diversi. Nonostante tutte queste difficoltà , si continuano a erogare servizi, a tenere aperti scuole e ospedali, ad avere treni che corrono e strade che vengono asfaltate: dunque, il rincrescimento delle occasioni perdute è ancora più cocente. Come diceva mio nonno, "chi spende il superfluo, risparmia il necessario".
Se ci vogliamo rimettere in sesto, dobbiamo immaginare il doppio della fatica, avendo a disposizione la metà dei soldi e giocandoci la partita a tempo ormai scaduto. E credo risulti evidente anche che non sto parlando soltanto delle aree che sono andate sott'acqua nel 2010: c'è da chiedersi per esempio che cosa accadrebbe al bacino del Piave di fronte a una riedizione del dramma del '66.
E' tutto il Veneto che deve essere ripensato. Sapete quanto sia restio a proporre argomenti astratti, ma chi, ragionevolmente può imbarcarsi in un progetto come quello di tentare di mettere in sicurezza il Veneto, senza prima avere un barlume di idea su come rifondare il rapporto tra uomo e natura? La verità è che, per molti anni, abbiamo fatto un cambio che ci pareva giusto: territorio in cambio di ricchezza.
Terra, in cambio di cemento; spazio, in cambio di capannoni; cura quotidiana e faticosa dell'ambiente, in cambio di apparenti comodità da usare e da consumare in fretta. Non ci sono da una parte i "cattivi" e dall'altra gli "innocenti". Tutti dobbiamo diventare corresponsabili delle nostre vite, della nostra casa, della nostra terra, del nostro ambiente, della natura che ci circonda. Una natura con cui abbiamo intessuto, almeno negli ultimi cento anni, un rapporto conflittuale, forti della convinzione che eravamo noi i più forti. Poi, accendi la televisione e guardi le immagini delle auto, che sembrano giocattoli trascinati a valle dai fiumi a cui avevamo imposto un nuovo corso e un nuovo letto perché di quel pezzo di alveo avevamo bisogno magari per tirarci su un condominio che oggi si è sbriciolato. La natura ci circonda e, in ogni istante, cambia. Possiamo pensare di rimanere immuni dal cambiamento? Eppure nei nostri piani regolatori diamo per scontato di essere invincibili di fronte alla forza della natura.
E tra mille anni? O, magari e più realisticamente, fra qualche, che succederà ? Questi non sono interrogativi che deve porsi soltanto il pubblico amministratore, perché uno dei principi che regolano il formarsi delle leggi è che esse, le leggi, sono la cristallizzazione di quello che tutti, in qualche modo, viviamo, vogliamo e facciamo. Un duro richiamo che tocca tutti, qualunque sia la latitudine in cui si vive o lo stato sociale che si pensa di avere. Per troppi anni, da questa parte del mondo, ci siamo cullati nell'illusione che la catastrofe, lo tsunami, riguardasse soltanto i poveri del mondo o certe parti del pianeta. E raramente impariamo, forse solo quando lo schiaffo è così pesante che ci costringe a farlo. Pensate al grande esempio che ci arrivò, non nell'età del bronzo, ma appena trent'anni fa dal terremoto del Friuli.
Vecchie case distrutte che sollevarono il tema strutturale della quantità di ferro presente nel cemento, tanto che, con Gemona rasa al suolo, in tanti si sarebbero voluti far fare delle trasfusioni di ferro nelle colonne portanti della propria abitazione. Miracoli della paura. E poi si ricostruì con criteri antisismici, con la prudenza dettata dall'esperienza. Quell'evento trasformò, almeno nei territori virtuosi, il concetto stesso del costruire. Oggi, siamo a un altro bivio della storia. Dobbiamo tornare a progettare, ma senza la superbia dell'uomo moderno, la difesa delle nostre esistenze e delle nostre case.
Il che significa che nessuno può ragionevolmente pensare che, una volta che tutto sia stato riprogettato, rifinanziato e ricostruito, si sia a sicurezza globale. Concetto che nella realtà non esiste, perché la natura è sempre e comunque più forte di noi. Possiamo farcela. Vogliamo farcela. Dobbiamo farcela. Ma per riuscirci dobbiamo tornare a essere comunità . Nessuno ce la farà da solo, così come nessuno si salva scaricando responsabilità e problemi nel giardino del vicino di casa. Oggi questa regione è pronta ad assumersi responsabilità e oneri.
Ma dietro l'istituzione è necessario un nuovo patto che riguardi tutta la comunità . Innanzitutto, nel pretendere che, come abbiamo fatto assieme ai sindaci del'alluvione, si fissi la prevenzione del rischio idrogeologico come una priorità nazionale e locale diffusa a tutti i livelli, e ci si diano i mezzi, anche finanziari, per affrontarla. In secondo luogo sapendo che ciò comporterà scelte difficili e, qualche volta, impopolari. Infine, convincendosi che, se da soli ci sembra di fare più in fretta, assieme si può andare più lontano.
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