Viviamo in uno strano paese
Sabato 23 Ottobre 2010 alle 22:17 | 0 commenti
A fine settembre in provincia di Vicenza le aziende che hanno dichiarato apertura di crisi sono state 180. L'aumento, rispetto a settembre 2009 (141 aziende) è del 27,65%. In Veneto le aziende coinvolte in apertura di crisi sono state 1.075, con un aumento pari al 26,3% rispetto allo stesso periodo del 2009 quando le aziende erano 851. Sempre a fine settembre, nel 2010, le ore di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga) richieste in provincia di Vicenza sono state 20.734.993, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2009 quando furono 11.144.314. In Veneto la situazione è analoga.
Quest'anno a settembre le ore totali di cassa integrazione richieste sono 100.513.510 a fronte di 50.706.856 dello stesso periodo del 2009, e sono di molto superiori a tutte quelle dell'intero 2009 quando furono 80.872.369. Analizzando i dati si vede come, mentre esiste un significativo calo nella richiesta di ore di cassa integrazione ordinaria, la cassa integrazione straordinaria aumenta in maniera vertiginosa (191,6% a Vicenza e 427,2% in Veneto) così come quella in deroga (541% a Vicenza e 319% in Veneto). La mobilità , da gennaio a settembre, in provincia di Vicenza è tornata a crescere. Ha colpito un totale di 5020 persone rispetto alle 4958 dello stesso periodo del 2009. In Veneto, invece, il numero di lavoratori in lista di mobilità è leggermente calato. Infatti, da gennaio a settembre 2010, è di 24.839 unità mentre nello stesso periodo del 2009 fu di 25.331 unità . Si fa presto a sbandierare qualche segnale positivo dovuto, magari, alla crescita di ordinativi o degli utili di impresa. La verità è quella di una provincia e di una regione in profonda crisi occupazionale. Così come, del resto, accade nel resto d'Italia. Quello che più spaventa è l'assenza di una qualsiasi politica (nazionale, regionale o locale) che affronti l'emergenza lavoro del nostro paese in maniera strutturale, senza ricorrere sempre e comunque a palliativi quali sono gli ammortizzatori sociali. I partiti che governano il paese, la regione e la nostra provincia (che, è bene ricordarlo, sono ormai da tantissimi anni PdL-Fli e Lega) non scelgono, sono incapaci di affrontare il problema lavoro o sono poco interessati. Sembrano avere altro per la testa, occupati come sono a risolvere le proprie questioni giudiziarie o a fingere di governare urlando slogan ormai vecchi e inutili. Anche gli imprenditori nostrani prestano attenzione ad altre cose. Si inventano sempre nuovi modi per pagare meno tasse, pretendono sempre più privilegi, chiedono nuove privatizzazioni, si sentono assolti da ogni colpa anche quando chiudono le fabbriche per delocalizzare là dove possono pagare meno e inquinare di più. Chi ne va di mezzo sono i lavoratori, i pensionati, gli studenti. Quelle persone, cioè, che le tasse le pagano. Quelli che sostengono praticamente da soli lo Stato.
Strano paese l'Italia. Qui i poveri pagano di più e i ricchi sempre meno grazie a sotterfugi, condoni, scudi fiscali. Strano paese il nostro dove chi dirige la politica e l'economia non è responsabile di nulla, non risolve niente ma, apparentemente, è l'unico che si sente in grado di comandare.
Si dovrebbe sempre restare molto stupefatti ascoltando le varie dichiarazioni di esponenti politici e confindustriali sulla situazione del lavoro in Italia. Ci siamo dimenticati che, solo pochi mesi fa, sia governo che Confindustria dichiaravano che il peggio era dietro le spalle? Oggi, gli stessi, si dicono preoccupati per quanto succede, ma, la loro, è una preoccupazione intermittente, cresce e cala, a seconda del momento e della convenienza personale. Le loro preoccupazioni si fermano alle parole, a qualche lamento di circostanza. Sembrano indignarsi ma è un attimo. Dicono che servono più "ammortizzatori sociali" e pensano, così, di aver risolto il dramma dei lavoratori ai quali loro stessi tolgono il lavoro. Affermano che bisogna investire in ricerca, innovazione e formazione e non fanno nulla. Anzi, portano il lavoro là dove possono sfruttare di più i lavoratori. Dichiarano che bisogna diminuire le tasse sul lavoro, intendendo soprattutto quelle alle imprese, e non vogliono che si aumentino quelle sulle grandi rendite dovute alle speculazioni finanziarie. Dicono che in Italia c'è un'evasione fiscale impressionante ma si dimenticano di dire chi sono gli evasori e plaudono ai vari condoni o scudi fiscali. I loro manager sostengono che il lavoro costa troppo e che, quindi, sono costretti a licenziare e ogni anno intascano retribuzioni di milioni di euro, a prescindere dai risultati. Piangono i morti sul lavoro e allo stesso tempo dichiarano che la legge sulla sicurezza sul lavoro è "un lusso che non possiamo permetterci" e fanno di tutto per rinviare i processi di lavoro nei quali sono coinvolti. Un esempio concreto è il processo Marlane-Marzotto che non riesce a partire per i cavilli burocratici, gli ostacoli e quant'altro che gli avvocati degli imprenditori e dei dirigenti indagati riescono a utilizzare.
Stupefacente è anche che nessuno di lorsignori si senta responsabile della situazione di crisi che viviamo. Nessuno tenta strade nuove, anzi si chiedono soluzioni che prevedono i soliti incentivi, gli aiuti statali, le defiscalizzazioni. Il modello di sviluppo che hanno in mente è semplice: lavoro a costo (e salario) sempre più basso, precarizzazione e flessibilità come forma normale di lavoro, cancellazione dei diritti (anche di quelli costituzionali), sfruttamento dei lavoratori, alti profitti, tassazione bassa per gli utili e per le operazioni finanziarie. È un modello di sviluppo logoro, antico, ottocentesco. Un sistema che non può reggere. Ma questo è il punto: l'opposizione parlamentare non propone nulla di alternativo. Giusto qualche "aggiustamento", piccole modifiche e null'altro. Anche loro sono impegnati a trovare un leader che li illumini. Dovrebbero impegnarsi, invece, a costruire un progetto di alternativa. Chiedere contenuti e proposte, esigere scelte politiche chiare e inequivocabili sembra ormai solo utopia. Veramente strano paese l'Italia.
Dobbiamo avere coraggio nuovamente, alzare la testa, pensare e agire per cambiare le cose. Cerchiamo di vincere il torpore che ha fatto presa su tutti noi, sui lavoratori, su cittadini. Mettiamo in un angolo quella rassegnazione che ci fa accettare qualsiasi cosa. Crediamo che sia possibile proporre un nuovo modello di sviluppo basato sulla priorità del lavoro e cominciamo a costruirlo un poco alla volta. Il lavoro è il primo diritto. Un lavoro che deve essere sicuro, continuativo, ben retribuito. Non si possono più tollerare quelle vergognose differenze per cui un dirigente d'azienda ha una retribuzione che è 400 o 450 volte di più del salario medio di un lavoratore. Non si possono più tollerare un'evasione fiscale pari a oltre 120 miliardi di euro ogni anno e una corruzione che costa annualmente, a tutti noi che paghiamo le tasse, oltre 60 miliardi di euro. Non si può più tollerare che pochi oligarchi siano padroni di tutto, anche delle nostre vite. Sono i lavoratori che dovrebbero essere i proprietari dei mezzi di produzione. Un obiettivo Ideologico? Forse. Lontano e, oggi, apparentemente irraggiungibile? Può darsi. Ma intanto cominciamo immaginarci una società diversa e più giusta. Il nostro programma può iniziare da pochi e semplici principi, quelli contenuti nell'articolo terzo della nostra costituzione: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Accedi per inserire un commento
Se sei registrato effettua l'accesso prima di scrivere il tuo commento. Se non sei ancora registrato puoi farlo subito qui, è gratis.