Vicenza, crisi mondiale e demone del quanto
Domenica 17 Ottobre 2010 alle 15:47 | 0 commenti
Di Enrico Rosa
La crisi economica che sta mordendo il mondo occidentale avrà probabilmente una conseguenza inaccettabile per molti. Il livello di benessere cui siamo da tempo abituati andrà via via scemando. Il punto è che bisogna capirci bene su che cosa si intenda per benessere. Se si pensa a qualcosa di puramente quantitativo l'Italia come il Veneto possono mettersi il cuore in pace.
Il boom come lo si è visto dopo la II Guerra non si ripeterà più. Il cosiddetto boom è stato foriero di alcune novità molto interessanti come istruzione pubblica, fine della malnutrizione, miglioramento del benessere fisico, ma ha portato con sé una serie di scarti di lavorazione che una più saggia gestione avrebbe permesso di evitare: devastazione del territorio, inquinamento, saturazione urbanistica sono i tratti salienti tangibili. Però la cosiddetta esplosione del benessere ha anche portato ad una colonizzazione mefitica dell'immaginario. Alla esplosione di una serie di bisogni superflui e cretini il cui appagamento costi quel che costi sta strozzando una ragionevole prospettiva per i prossimi anni, sia sul piano della vita di tutti giorni, sia sul piano esistenziale. Il Vicentino da questo punto di vista non è una eccezione. Anzi, è purtroppo un esempio negativo. Se confrontiamo il nostro territorio con quello dei nostri cugini bavaresi, badesi, austriaci o svizzeri, il paragone è schiacciante quanto avvilente. Ora se ha un senso, sempre che lo abbia, il pensare di uscire dalla cosiddetta crisi, che in realtà non è un fatto economico più o meno ciclico, ma la lacerazione dell'attuale modello di sviluppo, allora bisogna anche ripensare il tessuto economico di casa nostra. Se il concetto del cosiddetto benessere viene depurato dalle sue accezioni più superflue e grezze, il Vicentino, potrà dire ancora qualcosa di importante. Per un semplice motivo: sotto la crosta di cemento e scatolame geometrile c'è (o c'era) una terra ricca e meravigliosa. Ma per fare questo nel medio e lungo periodo bisogna pensare anche ad un processo di de-industrializzazione, anche mentale, al cui termine ci sia un obiettivo preciso. Quello di ritornare in equilibrio con l'ambiente che ci fornisce il sostentamento. Unitamente al progressivo riappropriarci del nostro tempo e di autentiche relazioni umane. Bisogna quindi ripartire dai beni primari e dalle necessità primarie; bisogna ricomporre una scala di valori, bisogna capire quanto è possibile permettersi quanto no. E soprattutto bisogna domandarsi se ha senso permetterselo. Un discorso del genere può trovare un punto d'incontro comune. Può trovarsi d'accordo l'economista (come il politico o l'imprenditore) abituato a rendere efficiente la ripartizione di risorse ritenute scarse. Può trovarsi d'accordo chi osserva il mondo da un punto di vista scientifico poiché si rende conto che il mondo medesimo non è che un sistema finito e che la seconda legge della termodinamica è una gabbia invalicabile per chiunque. Ma può trovarsi d'accordo, forse deve, chi del mondo ha una visione trascendente. Che sia cristiano, musulmano, pagano, indù, buddhista, è la dismisura (l'hybris della tradizione greca), la cifra non profanabile del rapporto tra l'essere umano, il Creato e il Creatore. Qualsiasi sia la chiave interpretativa del mondo, se la si considera nella sua accezione autentica, la cosiddetta modernità appare come un non senso, una follia o addirittura un demone oscuro. Abbiamo costruito in qualche modo il dominio del quanto sul come, sul dove, sul quando e sul perché. E il Vicentino purtroppo, con i suoi "schei", è una rappresentazione un po' buzzurra di questo meccanismo globalizzato. Un buon antidoto potrebbe essere un pizzico di sano orgoglio, o di tigna come dicono i vecchi romani. Ma come spiegava il compianto professor Cipolla, la stupidità è un nemico ancor più invincibile della cattiveria.
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