Sul CorVeneto l’interrogatorio di Vincenzo Consoli al tribunale di Roma prima dell'arresto: "il crollo è colpa della riforma. E le baciate erano legali"
Giovedi 4 Agosto 2016 alle 10:35 | 0 commenti
È il 29 settembre del 2015. A Roma sembra autunno: ci sono 21 gradi e il cielo è coperto. Le strade della capitale si riempiono di ragazzini gasati per il concerto di Mika, che la sera sarà sul palco del Palalottomatica. E intanto quattro uomini salgono le scale del tribunale, ciascuno con in mano una valigetta di documenti. Sono le 3 del pomeriggio, e a quell’ora i giornalisti hanno già lasciato le aule del Palazzo. Nessuno li vede entrare. Tra loro c’è Vincenzo Consoli, dimessosi un paio di mesi prima dalla carica di amministratore delegato di Veneto Banca. Al suo fianco ci sono i suoi avvocati: Franco Coppi, Alessandro Moscatelli e Massimo Malvestio.
«Non sono il Padreterno»
«Immaginare che un uomo solo può governare una banca di 6.500 persone, di dieci aziende che hanno consigli di amministrazione autonomi... Nel Cda di Veneto Banca c’era un signore che si chiama Chirò che era il proprietario di Banca Apulia, che è stata venduta a Veneto Banca: Chirò ha ancora un valore importante nell’azienda, sarà difficile che faccia comandare Consoli (...) Abbiamo avuto nel consiglio un certo Fabio Cerchiai, Ad delle Generali: immaginare che Consoli opprima l’amministratore delegato delle Generali mi pare davvero poco sostenibile; c’era Franco Zoppas, mi pare proprietario dell’Acqua San Benedetto e anche di altre due aziende: anche lì mi pare difficile che il ragionier Consoli, nato a Miglionico, possa prevaricare o possa indurre queste persone .(...) La politica creditizia è fatta da più persone. Allora, per chiarire, dicevo che quando c’era una holding, Veneto Banca Holding Società Cooperativa, c’era un Cda della cooperativa e c’era l’amministratore delegato che era Consoli, questo governava delle strutture operative che erano la Banca Popolare di Intra, che a sua volta aveva un Cda e un direttore generale, un collegio sindacale, una società di revisione. Veneto Banca stesso discorso, Banca Apulia stesso discorso, Cassa di Risparmio di Fabriano stesso discorso. Poi c’era il leasing, c’era il factor, le banche estere: immaginare che una struttura così complessa fatta di una dozzina di azienda con propri Cda, dg, collegi sindacali, società di revisioni, un solo uomo possa imporre... cioè io sarei un Padreterno, sarei! E non voglio darmi quel credito che mi sta dando la Banca d’Italia, in maniera assoluta non potevo farlo. (...) Questo è quello che ho fatto io, ho agito nell’ambito delle facoltà che mi sono state delegate ma è quello che fa l’amministratore delegato, se non lo facessi dovrebbero accusarmi di altro».
La stabilità del «modello Popolare»
«Improvvisamente c’erano due binari che correvano paralleli: uno era il mercato ufficiale e l’altro il mercato delle Banche Popolari. A un certo punto hanno cercato di farli incontrare, decidendo che il metodo di valutazione della Popolari non era più adatto e bisognava portarle al mercato. (...) (Quello di prima, ndr ) era un modello che diceva “qui facciamo premio o qui nella Popolari fa premio la stabilità â€. Allora nei momenti di grande euforia della Borsa le Popolari mantenevano un valore che era un valore mediano, stabile. Nei momenti di grande depressione anche qui le banche popolari mantengono un valore mediano, quindi in sostanza non hai nè gli eccessi, nè le depressioni. (...) La stabilità era anche una forma di sostegno alla banca. Il metodo di retribuzione era il Dividend discount model , e poi questo veniva mediato anche dal metodo patrimoniale misto e si faceva una sorta anche di media. All’interno di questi fattori il Consiglio di amministrazione stabiliva qual era più o meno il prezzo». Poi però, dal 2013, quel sistema ha smesso di valere. E allora «è chiaro che se tu sei in un mercato, quando vai a fare gli aumenti di capitale hai bisogno di capitale. Puoi diminuire, vendere a prezzi più bassi e il capitale in un anno, se non te lo danno a 5, te lo danno a 4, 3, 2... mentre per le Popolari era proprio il modello della stabilità che dava sicurezza ai soci: mantenevamo i loro denari, c’era un certo rendimento e quando la banca aveva bisogno di denari per fare altre cose, i soci te li davano. Questo era il modello».
«Le baciate una prassi? Esagerati...»
Al momento dell’interrogatorio Bankitalia aveva già contestato all’istituto di Montebelluna di aver gonfiato i propri dati inserendo 157 milioni di euro di azioni che i soci avrebbero acquistato, almeno in parte, attraverso prestiti concessi dello stesso Istituto. In seguito la banca stessa farà salire il conteggio fino a 290 milioni.
«Dire che questa era la prassi, secondo me è un po’ esagerare. Perché quando Banca d’Italia sta lì da noi dieci mesi e trova 157 milioni con venti nomi e dice che è prassi, mi pare eccessivo, però, per carità ...». A quel punto un finanziere lo incalza: «Aumento di capitali, chiamano i soci, i soci rispondono anche con finanziamento...». E Consoli risponde: «Esatto. Però, poi mi sembra che recentissimamente l’Eba (l’Autorità bancaria europea, ndr ) ha fissato delle regole su questo fronte, no, se l’Eba ha ritenuto di fissare soltanto adesso delle regole, secondo me perché prima non c’erano. (...) Eh sì, perchè, voglio dire, Banca d’Italia è stata in Veneto Banca nel 2009, non è che era stato tanto tempo fa. Allora, se era prassi, nel 2009 perché non l’hanno visto? O forse non interessava? (...) Si faccia dare il rilievo ispettivo del 2009 ed è la stessa cosa: una volta va bene e una volta va male».
In pratica la tesi è questa: le «baciate» erano una prassi che nessuno aveva mai contestato, neppure Bankitalia. Poi, all’improvviso, è diventata illegale. Ed è proprio questo che a Consoli non va giù.
Su un piano diverso, ma collegato, la risposta alla contestazione che Veneto Banca abbia concesso finanziamenti per circa 400 milioni basati solo sugli atti di compensazione e garanzia (Acr) e non sul merito creditizio, cioè sull’effettiva affidabilità economico-finanziaria di chi chiedeva un prestito. Prima lo esclude: «Non esiste. (...) Qualcuno ha male interpretato gli Acr, non esiste che ci siano 800 milioni di fidi concessi soltanto a fronte di capitale, non esiste in maniera categoria». A quel punto il finanziere lo corregge: «Non sono 800, ma c’è qualcuno...». E allora Consoli chiede di vedere la lista: «Se lei mi dice che ce n’è qualcuno, vede, sul singolo, se lei chiede a Consoli che faceva il direttore generale, non mi deve chiedere del singolo perché se no io sarei Mandrake...»
«Anche Bankitalia sbaglia»
Più in generale, parte della difesa di Vincenzo Consoli si basa sulla convinzione che gli ispettori della Banca d’Italia abbiano sbagliato a valutare. E l’attacco, a volte, finisce sul personale. «Se prendiamo per assoluto che quello che dice Banca d’Italia è vero, non apro più bocca, ma se nelle valutazioni... D’altra parte se uno fosse così bravo non farebbe l’ispettore di Banca d’Italia, farebbe l’amministratore delegato secondo me. Perché se tutti i geni sono lì a fare gli ispettori, gli amministratori delegati sono tutti quanti deficienti!».Â
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