Voto fiducia e sinistra divisa, l'appello del PdCI Vicenza contro la "deriva democratica"
Mercoledi 8 Ottobre 2014 alle 15:39 | 0 commenti
"A Roma si sta consumando l'ennesima umiliazione del parlamento". Inizia così l'appello del Partito dei Comunisti Italiani di Vicenza contro il voto sulla riforma del lavoro del governo Renzi. "La necessità - spiega la nota - è di unire le varie mobilitazioni e le proteste in una lotta organica che ci permetta di contrastare la deriva democratica del paese e di rimettere al centro della società i lavoratori e i loro diritti e non la finanza e il profitto di pochi".
A Roma si sta consumando l'ennesima umiliazione del parlamento. La richiesta di fiducia sul ddl delega (il cosiddetto “jobs actâ€) è un atto indecente da parte di un governo che non ha più alcuna parvenza di democratico. Il parlamento, che vive un periodo di estrema difficoltà anche per la presenza di politicanti mediocri nominati con una legge elettorale che è stata dichiarata incostituzionale nei suoi punti principali, viene ulteriormente scavalcato dalla annunciata decisione di porre la fiducia. Fiducia su un tema molto importante come quello del lavoro che non dovrebbe essere affrontato con le imposizioni e le arroganze delle quali Renzi e i ministri del suo governo sono abituati. Si spieghi perché, in parlamento, è in atto una discussione diventata inutile e ininfluente visto il voto di fiducia richiesto e visto che si sta dibattendo su un testo che, in pratica, non esiste in quanto in via di definizione. Il governo vuole, con questa delega in bianco, un ulteriore svuotamento di quelle istituzioni costituzionalmente preposte a legiferare. La situazione è veramente grave e precaria da ogni punto di vista: politico, sociale, democratico e morale. Una situazione prossima a quella di una dittatura “soffice†che, pur mantenendo un simulacro di democrazia, di fatto delega a pochi il potere di fare quello che vogliono senza rendere conto a nessuno di alcunché.Â
In questo periodo ci sono svariati gravi aspetti che minano la nostra democrazia. Abbiamo un presidente della repubblica che interviene su tutto, spesso travalicando i confini di una Costituzione della quale dovrebbe essere il primo garante. Esiste un dibattito politico che avviene quasi unicamente davanti alle telecamere con discussioni tra politicanti in evidente malafede che parlano a slogan, senza mai spiegare i contenuti delle cose ma facendo annunci, promesse, gridando e litigando sul nulla, con il chiaro obiettivo di nascondere la realtà dei fatti e non fare capire nulla di cosa si sta decidendo. Del resto, le decisioni vengono prese in altri luoghi. Dietro le quinte, nelle stanze nascoste, tra personaggi che stanno nell'ombra. È un disegno perverso nel quale alcune istituzioni, delle quali si è annunciata la cancellazione come le province e il senato, continuano ad esistere diventando un insieme di “nominati†da parte di chi già occupa altre istituzioni, utili solo al potere centrale. Continuiamo a sentire il ritornello che questo governo è l'ultima spiaggia, che, se cade, dopo non c'è nulla, che non ci sono alternative e che, quindi, non si può andare a votare. Ma cos'è questo se non il tramonto della democrazia costituzionale e l'alba di qualcosa di diverso che non guarda al futuro ma fonda le sue radici in un passato oscuro dove i lavoratori e il popolo non avevano alcuna voce in capitolo?
Stiamo assistendo alla trasformazione definitiva dei partiti di massa in comitati elettorali e ditte d'affari e, questo, è un'ulteriore pericolo per la democrazia. Bisogna rendersene conto. Lo si vede, questo pericolo, anche nelle discussioni interne al PD (ormai diventato un partito “liquido†e “personale†con pochi iscritti e molti elettori dove nessuno ha possibilità di modificare le decisioni del capo) che ci mostrano ogni tanto qualche voce critica. Voce che, però, è pronta a tacere nel momento della votazione parlamentare sulle varie fiducie richieste.
La debolezza di chi si oppone a questo degrado fa il resto. La sinistra (quella vera, non quella che i media ci vogliono far credere esista ancora nel PD) è divisa e marginale certamente per colpe sue ma anche per leggi elettorali che hanno contribuito alla sua espulsione dalle istituzioni. I maggiori sindacati si svegliano ogni tanto ma la protesta (giusta e doverosa, ma anche tardiva) sembra sempre fermarsi di fronte ai diktat del loro partito di riferimento. Si può affermare anche come, la timidezza dimostrata in tutti questi ultimi anni, abbia certamente minato la credibilità di questi sindacati di fronte ai lavoratori che si sono sentiti abbandonati da chi doveva organizzare la lotta e, se necessario, promuovere il conflitto in loro difesa.
Lo stato di confusione e debolezza della sinistra politica e sociale italiana lo possiamo toccare con mano proprio oggi. A fine ottobre, infatti, ci saranno due mobilitazioni. Venerdì 24 c'è lo sciopero generale indetto dal sindacalismo di base (USB) con manifestazioni nei territori, mentre il 25 avrà luogo a Roma la manifestazione della CGIL. Sono sicuramente iniziative alle quali bisogna aderire convintamente e operare perché abbiano successo entrambe. Ma alcune domande sorgono spontanee. Perché bisogna agire divisi, in questa battaglia così importante? Non sarebbe meglio unire gli sforzi e organizzare una mobilitazione più grande e forte, che abbia anche continuità nel tempo? Non sarebbe meglio organizzare assieme un grande sciopero il 24 e, magari, chiamare unitariamente i lavoratori a quell'occupazione delle fabbriche della quale proprio oggi parla la FIOM? Non si può decidere finalmente di lottare uniti, lasciando da parte le divisioni (che pure ci sono) tra le organizzazioni sindacali e tra la sinistra italiana così frazionata? È così difficile capire che la controparte (quegli “avversari di classe†dei quali il governo fa parte che stanno diventando sempre più “nemiciâ€) saranno sempre vincenti se non si costruirà un fronte per fermarli?
C'è la necessità di unire le varie mobilitazioni e le proteste in una lotta organica che ci permetta di contrastare la deriva democratica del paese e di rimettere al centro della società i lavoratori e i loro diritti e non la finanza e il profitto di pochi.
Facciamolo, siamo ancora in tempo. Ma non per molto.
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