Quote rosa nei Cda delle aziende: parità o discriminazione?
Sabato 4 Giugno 2011 alle 11:07 | 0 commenti
In un mondo sempre più meritocratico sembra strano dover discutere di “quote†per incarichi di un certo tipo. Se sembra giusto riservare posti di lavoro a chi dalla sorte ha avuto in regalo impedimenti o menomazioni di un qualunque tipo, qualche dubbio non si può non avere sulle cosiddette quote rosa, che già fanno discutere nel settore multiforme delle cariche politiche elettive, visto che l’appartenenza al sesso femminile non è (o non dovrebbe più essere) una qualunque forma di handicap.
Eppure si diffonde, anche  sul web la mobilitazione per una legge che impone il 30 per cento di donne ai vertici delle società quotate in Borsa, anche se questa legge rinvia la “femminilizzazione†dei Cda al 2018. E’ pur vero d’altra parte che l'Italia è al terzultimo posto in Europa per numero di donne che facciano parte dei consigli di amministrazione di aziende quotate in Borsa e, quindi, il mondo dell'economia e del business, nel nostro Paese, sembra ancora fortemente maschile. La proposta di legge bipartisan in discussione al Senato imporrebbe una quota obbligatoria del 30 per cento di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate e di quelle municipalizzate e sarebbe il sistema individuato per  'costringere' le aziende a un minimo di parità e di rappresentanza femminile in più. In Norvegia già da anni la quota rosa è fissata al 40 per cento, in Svezia dal 2003 è addirittura prevista (obbligata?) la parità numerica tra uomini e donne nei Cda, in Spagna entro il 2015 almeno il 40 per cento dei posti nei CdA sarà riservato alle donne, mentre in Francia la quota arriverà al 20 per cento entro il 2014 e al 40 per cento entro il 2017. Facile immaginarlo, ma in Germania non esiste alcun obbligo di avere amministratrici, a meno che, direbbero i compassati teutonici, non siano in grado di meritarlo per le proprie capacità professionali.  Ora se le modifiche apportate al testo prevedono l'obbligatorietà del 30% di “Emme†Marcegaglia ai vertici aziendali per il 2018, viene da porsi al contrario la domanda se, in un mondo in cui la parità tra i sessi è ancora da raggiungere solo in certi strati sociali e territoriali sempre più ridotti, non sia più giusto operare di più perché vengano limitate le disparità “operative†tra uomo e donna (vedi la legislazione sulla maternità e paternità con le relative conseguenze sul lavoro) e, invece, permettere che ogni persona abbia pari diritti di carriera sulla base dei propri meriti e indipendentemente dal proprio genere. Questo, tra l’altro, lo affermano con convinzione molte donne in carriera. A voi e al futuro l’ardua sentenza.
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