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Quando eravamo povera gente. 62 anni dopo Marcinelle

Di Giuseppe Di Maio Mercoledi 8 Agosto 2018 alle 22:09 | 0 commenti

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Se non si disprezza l’essere umano, non lo si può ridurre in schiavitù. Il conte Secco Suardo, presidente della delegazione italiana, et le Chargé d’affaires de Belgique comte Geoffroy d’Aspremont-Lynden furono i firmatari del protocollo italo-belga del 23 giugno del 1946. Il contratto, che fu chiamato anche “Uomo – Carbone”, seguiva quello del 1922 fra il Governo Italiano e la Federazione Carbonifera Belga, che aveva consentito a quest’ultima di reclutare durante il ventennio la manodopera direttamente in Italia. 

Un paio di settimane dopo le elezioni per l’Assemblea Costituente, i due aristocratici firmarono con ereditaria superbia di classe il destino di molti italiani, ignari che di lì a poco il dettato costituzionale avrebbe sancito una Repubblica fondata sul lavoro. Sui lavoratori, anzi, come avrebbe voluto il partito comunista; e invece sui lavoratori e sul loro sangue si fondò ancora una volta il benessere dei ricchi e il loro potere.

I manifesti con un accattivante color rosa che si cominciarono ad affiggere in tutti i comuni italiani, recavano notizie sui salari, sugli assegni familiari, sul cambio, sul viaggio, sui biglietti gratuiti, sul premio di natalità, etc… ma non c’era riportata la realtà del contratto. Il vero accordo, al contrario, insieme con gli allegati dell’anno successivo, oltre a rendere implicitamente obbligatorie condizioni di lavoro indegne, prevedeva l’onere di lavorare in miniera 5 anni prima di poter accedere ad altri mestieri, e almeno un anno intero a scavare carbone, pena l’arresto. I nostri lavoratori li avrebbero attesi le “cantines” e gli hangar - gli stessi posti in cui durante il conflitto erano stati stipati i prigionieri di guerra - roventi d’estate e gelidi d’inverno, nonostante le rassicurazioni contrarie del governo belga.

Afflitti da disoccupazione endemica - effetto di un’ingiustizia sociale altrettanto radicata – i “forzati del salario” di allora si convinsero a partire, e nel decennio che seguì andarono in Belgio in 63mila, ben oltre i 50mila richiesti. I veneti, gli abruzzesi, i siciliani, i miei irpini coi vicini lucani, tutte le campagne italiane che aspettavano la riforma agraria e la redistribuzione delle terre, salirono sul treno che li portò nel nord Europa dopo un viaggio di più di due giorni. Scesero nei “trou” (buchi) dove dopo un anno ci si beccava la silicosi e la tosse continua; infine, si “sputavano i polmoni”. Spesso venivano divisi in gruppi regionali (siciliani a Charleroi, napoletani a Liegi, i veneti ad Hasselt…) per vicinanza di lingua, per comunicare tra di loro. Quando scendevano negli ascensori si abbracciavano, poiché non sapevano se sarebbero ritornati.

Ma il contratto prevedeva un invio in Italia di carbone, per il riscaldamento e per l’industria, necessario al nostro paese che non aveva risorse naturali né denaro per poterle comprare. Al tempo in cui Scelba, impaurito dal pericolo comunista faceva sparare sui lavoratori in sciopero, il governo belga selezionava gli italiani per le miniere secondo la fede politica: i comunisti, e le loro idee di giustizia, non erano graditi nemmeno da Achille Van Acker, primo ministro belga che aveva lanciato la sua “bataille du charbon”.

Io stesso ricordo, quanti ex minatori delle mie parti alla fine sono morti di cancro alla gola. Si dava anche la colpa alle “saint-michel”, terribili sigarette senza filtro dal tabacco nero, ma la verità la conoscevano tutti. Il respiro della “poussière”, la polvere della Vallonia che sporcava le camicie stese ad asciugare e che s’alzava dai buchi della “mina” (come la chiamavano i miei compaesani), aveva fatto il suo lavoro anche a distanza di decenni. Chissà se erano coscienti di tutto questo i due conti mentre firmavano il loro contratto, quanto la loro ottusità di ceto impediva loro di porsi questioni morali che riguardassero il popolo pezzente. La visione dei ceti ottusi è causa di innumerevoli disastri per la povera gente; anche quello del Vajont, ad es., ebbe a che fare con due conti. Però, quando lo sbigottimento per Marcinelle e i morti del Bois du Cazier raggiunsero ogni parte del mondo, si rimeditò di mettere fine al protocollo. L’anno seguente, con i trattati di Roma, nacque la comunità europea.

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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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