Quale futuro per Confindustria? Intervista a Cipolletta
Sabato 5 Marzo 2011 alle 20:19 | 0 commenti
Rassegna.it - Innocenzo Cipolletta, economista ed ex direttore generale di Viale dell'Astronomia: "Bisogna cambiare. Le imprese ormai vanno verso i mercati, non si può restare legati ai settori produttivi. Di questo passo, si rischia di diventare una lobby"
di Stefano Iucci
Sindacati, associazioni padronali, soggetti dell'agire collettivo: tutte entità in grande difficoltà nell'epoca della post-democrazia e della globalizzazione, dove pare sempre più ristretto lo spazio disponibile per l'agire dei cosiddetti corpi intermedi.
Mentre, tuttavia, sulla crisi dei partiti e dei sindacati si scrive a volontà , poco si dice a proposito dello stato di salute dei soggetti di rappresentanza delle imprese. In questo, almeno, un "merito" Marchionne lo ha avuto: uscendo con la sua "nuova" Fiat da Federmeccanica ha spinto Emma Marcegaglia ad accelerare la riforma di Confindustria, annunciata per la prossima primavera-estate, ma di cui si sa ben poco, a parte un qualche vago e generico accenno sulla necessità per l'associazione di essere più vicina al territorio e alle imprese.
Di questo tema, del futuro di Confindustria, abbiamo discusso con Innocenzo Cipolletta, economista, presidente dell'Università di Trento, ex numero uno delle Fs italiane e direttore generale di Confindustria in una fase molto cruciale per viale dell'Astronomia.
"Credo che occorra iniziare il ragionamento dal modello contrattuale di riferimento - dice lo studioso -. La mia impressione è che con la tendenza in atto ad andare verso un contratto aziendale che di fatto e di diritto punta a sostituire il contratto nazionale - e che, pur di arrivare a questo risultato, spinge una parte della Fiat fuori da Confindustria - si sia dato il "la" a un processo già iniziato in maniera sotterranea negli anni novanta e che in alcuni paesi si è già affermato. Questo processo finirà per mutare in profondità le funzioni che hanno fin qui svolto le grandi associazioni datoriali come Confindustria. Le grandi imprese, quelle che si trovano a operare su scala globale, mostrano infatti difficoltà crescenti nel "riconoscersi" nei contratti nazionali dei singoli paesi e hanno la tendenza a sviluppare una formula contrattuale, appunto, aziendale.
Il Mese Prima di approfondire questo aspetto, però, mi permetta di rimarcare come il modello del luglio '93, quello basato sui due livelli, serviva proprio a contemperare queste esigenze.
Cipolletta È vero, però c'è stata sempre una grande difficoltà a separare le materie dei due livelli, perché queste finivano spesso per interferire tra di loro, sia rispetto all'organizzazione del lavoro sia rispetto al costo complessivo del contratto. La mia opinione è che il mutamento di cui parlo non sarà istantaneo e ci vorrà del tempo ma comunque avverrà . Dunque: contratti aziendali per le grandi imprese e contratti collettivi nazionali per tutte le altre realtà imprenditoriali, che ovviamente in Italia sono la maggior parte. Nei nostri comparti, penso, si andrà a una sorta di contratto unico e omogeneo per l'industria.
Il Mese Torniamo al tema dell'intervista. In coerenza con quello che lei ci ha detto ora, qualche settimana fa Tito Boeri scriveva che Confindustria probabilmente si trasformerà in un'organizzazione lobbistica, un po' come la House of Chamber americana.
Cipolletta Se il processo che ho descritto andrà avanti, penso anch'io che questo accadrà .
Il Mese Perché?
Cipolletta Se l'attività contrattuale si sposta prevalentemente verso il territorio, con il contratto aziendale, sarà lì che si svolgerà la funzione negoziale e di consulenza delle associazioni datoriali. Invece, le strutture nazionali assumeranno una funzione, appunto, lobbistica, rinunciando così alla loro attività più specificamente contrattuale. È vero che in questo modo si perderà anche un po' della loro influenza sulla politica economica del paese: attraverso le trattative sui contratti nazionali, infatti, sindacati e associazioni datoriali tra gli anni settanta e novanta hanno contribuito a determinare la politica dei redditi. La ragione di questo mutamento è semplice: attualmente la lotta all'inflazione è demandata in larga parte alla Bce che detiene la sovranità sulla politica monetaria europea. Non nego che permanga la necessità di avere un quadro di coerenza nazionale per far sì che il paese non perda di competitività , tuttavia è certo che la politica dei redditi non ha più quell'importanza che ebbe negli anni novanta quando facemmo accordi fondamentali per ridurre l'inflazione e permettere all'Italia di entrare nell'euro.
Il Mese Però in questo modo diminuisce la capacità di incidere sulla politica economica del paese.
Cipolletta Sì, è così. L'azione lobbistica è legittima ma divide più che aggregare. Settori e imprese diverse hanno esigenze specifiche, non necessariamente conciliabili le une con le altre, e anzi in possibile contraddizione tra di loro. Ecco perché l'attività di lobby può meglio essere fatta da strutture omogenee, più piccole rispetto alle strutture nazionali ampie, tipo, ad esempio, Confindustria e la stessa Federmeccanica. Tra l'altro le imprese hanno ormai la tendenza a spostarsi verso i mercati piuttosto che verso i settori. La formula aggregativa tradizionale che abbiamo in Italia, e che deriva dalla nostra particolare storia, distingue i settori a seconda della loro natura merceologica: è il ciclo produttivo e la materia prima utilizzata che hanno determinato sinora l'appartenenza a un comparto piuttosto che a un altro. Ma le imprese oggi sono sempre più interessate al mercato di sbocco piuttosto che al processo produttivo. Faccio un esempio: un'industria tessile che produce tessuti per arredamento è molto diversa da quella che lavora per la moda; chi produce profumi è nel comparto chimico, certo, ma il suo mercato di riferimento è sempre la moda. Pur appartenendo allo stesso settore, gli interessi sono dunque molto differenziati. Per questo, secondo me, le azioni lobbistiche si scompongono per mercati. Per intenderci: non le agiscono più Confindustria e neanche Federmeccanica, ma aggregazioni più omogenee.
Il Mese E qual è la ragione allora per cui associazioni come Confindustria dovrebbero continuare a esistere, allora?
Cipolletta Dovranno conquistarsi un ruolo su tematiche più generali. Bisogna che le grandi organizzazioni delle imprese riacquistino una loro dimensione e un ruolo specifico nel campo della politica economica, del diritto d'impresa, del diritto della concorrenza. Cioè: tematiche di carattere trasversale che non possono essere affrontate a livello di singolo settore - bancario, terziario, industriale - ma che vanno considerate e viste tutte quante insieme. Quindi, ricapitolando, io vedo da un lato una spinta verso associazioni più piccole e omogenee, e dall'altro verso aggregazioni più vaste su temi più generali. Esistono già casi simili, per esempio Assomine che rappresenta in modo trasversale le imprese e tratta aspetti orizzontali che riguardano tutti: fisco, diritto d'impresa, governance, rapporti con gli investitori eccetera. Temi che in un mercato globalizzato diventano sempre più rilevanti e sui quali si può trovare un importante terreno associativo.
Il Mese Ma con l'evoluzione che lei prospetta non si perde qualcosa? Mi spiego: non si compromette la funzione che sindacati e datori di lavoro, pur nei diversi interessi rappresentati e nelle grandi lotte e scontri, hanno svolto nella costruzione di questo paese e nel nome di un interesse anche generale e non solo lobbistico?
Cipolletta Certo, qualcosa si perde. Però secondo me si tratta di un'evoluzione naturale: in fondo è il prezzo del successo che abbiamo ottenuto.
Il Mese In che senso?
Cipolletta Siamo riusciti a entrare in Europa, perdendo per alcuni aspetti, ma in senso positivo, alcune prerogative nazionali. E poi è anche il segno di una riuscita "educazione" dei soggetti. Nel dopoguerra noi avevamo lavoratori incapaci di difendersi sia per gruppi che singolarmente, perché erano deboli nei confronti delle imprese; ma avevamo anche imprese sprovvedute, che non conoscevano la legislazione, non riuscivano a stare sui mercati e a trattare con le banche. In quella fase dunque le associazioni sindacali e datoriali hanno svolto una funzione educativa molto importante. Il punto al quale siamo arrivati oggi è quindi il risultato di un successo: e cioè del fatto che quella missione si è riusciti a compierla. Non è un caso che oggi per i sindacati è diventata molto importante la spinta sul sistema dei servizi, che in qualche modo è il corrispettivo della funzione lobbistica di parte imprenditoriale. È ovvio che in questo modo la natura dei sindacati cambia. È più difficile rimanere rivendicativi e poi essere in qualche modo parte di un sistema nazionale che fornisce servizi. Se il sindacato "guadagna" attraverso i Caaf, i patronati, o con gli aiuti ai paesi in via di sviluppo, può avere una minore capacità di pressione verso il sistema politico che aveva quando ne era estraneo o del tutto indifferente. È parte e non più controparte.
Il Mese E infatti non tutte le associazioni dei lavoratori la pensano allo stesso modo su questo tema. Questo è uno dei motivi per cui la Cgil critica un sindacato troppo spostato sui servizi, che rischia di fargli perdere l'altro suo compito fondamentale, che è quello della rappresentanza e, nel caso, dell'azione rivendicativa all'interno di un conflitto tra capitale e lavoro che comunque ci sarà sempre.
Cipolletta Il conflitto ci sarà sempre, certo. Ma con il prevalere dei contratti aziendali e delle formule lobbistiche lo si può allocare dove ha senso che stia, cioè nei luoghi di lavoro; "sopra", invece, possiamo parlare di cose che ci riguardano tutti quanti. Per esempio, sindacati e imprenditori potrebbero non avere più centri studi che si combattono per dire che l'economia va bene o male a seconda dei casi, ma per trovare ambiti nei quali riflettere su cosa fare per il bene del paese. Poi, a livello di base, si continuerà a discutere ed eventualmente a confliggere per dividersi il benessere creato. Abbiamo in Europa un gran numero di problemi da risolvere e portare avanti, e non c'è nulla di strano se le associazioni datoriali si spostano di livello e cominciano a ragionare in termini più generali di politica economica. Per farlo hanno probabilmente bisogno di strumenti nuovi, che in parte già esistono e in parte no. Sicuramente l'investimento che ha già fatto Confindustria nel campo dell'università , nei media, nel settore delle analisi economiche e giuridiche con il suo centro studi ha portato grandi risultati per i comparti che l'associazione rappresenta: domani potrebbero diventare l'ambiente culturale nel quale si elaborano soluzioni e politiche utili per tutto il sistema. Perché non pensare, per esempio, a un bel sistema di formazione, comunicazione e studio che parli dell'impresa come strumento di progresso economico del paese? E perché, ripeto, non vi può partecipare il sindacato, non eliminando il conflitto ma lasciandolo nei luoghi dove esso avviene? Forse si tratta di un'idea utopistica, però io la vedo così.
Accedi per inserire un commento
Se sei registrato effettua l'accesso prima di scrivere il tuo commento. Se non sei ancora registrato puoi farlo subito qui, è gratis.