Primo Maggio, Italia. Ultima chiamata per una generazione
Sabato 30 Aprile 2011 alle 15:54 | 0 commenti
Alessandro Rosina*, Rassegna.it - I giovani non funzionano più. L'Italia è come un'astronave in avaria. Ma nulla può davvero mutare se i giovani stessi non si riappropriano del loro futuro e non diventano unici artefici del proprio destino.
Houston, abbiamo un problema. I giovani non funzionano più, stanno andando in avaria. L'Italia è come una navicella spaziale che, per problemi di malfunzionamento tecnico, rischia di dover rinunciare a raggiungere qualsivoglia meta ambiziosa. In tutte le società la vera forza propulsiva per il cambiamento e la crescita sono i giovani.
Se viene dispersa tale cruciale risorsa, non si va più da nessuna parte, si rimane fermi. Si diventa un paese socialmente immobile con un'economia che non cresce.
Ed è infatti ciò che l'Italia si è progressivamente adattata ad essere negli ultimi decenni. Un paese che, come ben noto, anziché aprirsi al nuovo ha preferito difendere il vecchio. Anziché destinare risorse per rendere più solide le sue energie più fresche e dinamiche ha preferito tutelare rendite di posizione e difendere privilegi generosamente elargiti in passato. Per rendersene conto basta confrontare la situazione italiana con quella dei paesi avanzati in termini di livello di indebitamento pubblico, di ripartizione della spesa sociale, di investimento in ricerca e sviluppo, e così via. Tutto evidenzia coerentemente la nostra incapacità di riorientare l'uso delle risorse non tanto verso meri obiettivi di riduzione degli squilibri generazionali, ma a favore di un maggiore e migliore contributo dei giovani alla crescita del paese.
Anziché pensare a come ottenere il meglio dalle nostre potenzialità , ci siamo quindi progressivamente accontentati di preservare il benessere acquisito. Ci siamo difesi dal cambiamento anziché cercare di coglierlo come opportunità . Una volta intrapresa questa china quello che ci si trova a fare è ambire a un domani che non sia troppo peggiore dell'oggi. È quello che fa un organismo che invecchia e si avvicina alla morte. Ma se questo è il destino di ogni individuo, non è necessariamente quello di una popolazione, che invece può rinnovarsi, crescere e migliorare, se fornisce adeguata consistenza e qualità alle nuove generazioni.
Ecco allora perché l'Italia è un paese sempre più vecchio, non tanto per l'età media dei suoi abitanti, ma per la sua incapacità di rinnovarsi; perché i giovani contano troppo poco e quando contano è più per quanto viene loro concesso dall'alto che per quanto riescono a ottenere in funzione delle loro doti e capacità . Nulla può davvero cambiare se essi stessi non si riappropriano dei loro desideri e non diventano unici artefici del loro destino. In alcuni paesi avanzati la domanda di cambiamento ha trovato risposte credibili, ottenendo forte partecipazione e sostegno da parte dei giovani. In altri paesi, meno fortunati, le nuove generazioni hanno forzato un cambiamento che non arrivava o appariva lento e poco credibile.
In Italia invece le giovani generazioni stentano a prendere in mano il proprio destino e con esso quello del paese. Eppure questa è la loro funzione, così è sempre stato nella storia umana. Senza l'innovazione che ciascuna nuova generazione porta con sé, senza la temeraria inclinazione dei figli a non accontentarsi delle risposte dei padri, a rimettere in discussione le loro certezze, a osare qualcosa di più, vivremmo ancora nelle caverne. Non avremmo mai posato il piede sul suolo lunare. Non avremmo mai fatto un trapianto di cuore. Non avremmo ora la tecnologia che ci consente di essere istantaneamente in contatto con ogni angolo del pianeta.
Ma per essere in senso pieno una "generazione" non basta essere un insieme di individualità che hanno in comune l'essere nate nello stesso periodo storico; occorre anche una pulsione affine, un reagire unitario. Un sentire comune che si contrappone ai limiti e alle contraddizioni dell'ordine costituito e diventa generatore di una nuova visione dell'essere nel e per il mondo. Non è solo un fatto anagrafico. Le giovani generazioni crescono assieme al mondo che cambia e trovano sulla loro strada gli stessi ostacoli che trova il cambiamento. Per questo motivo sono esse le migliori interpreti delle trasformazioni in atto. Rappresentano quella parte della popolazione che può trovare soluzioni innovative alle nuove sfide.
Mazzini aveva ventisei anni quando fondò la "Giovine Italia". La sua generazione aveva intuito che erano iniziati tempi nuovi e che quella dei padri non era in grado non solo di cogliere al meglio le opportunità e le sfide dell'epoca, ma nemmeno di comprenderle appieno. I tempi richiedevano un'impresa: inventarsi un'Italia diversa che non fosse la semplice somma di singoli staterelli divisi e litigiosi. La "Giovine Italia" nasceva esplicitamente con il compito di superare gli "errori dei padri" e come incoraggiamento a prendere l'iniziativa, facendo affidamento soprattutto sulle proprie forze. Se, allora, il nostro paese, a centocinquanta anni dall'Unità , ha perso la sua energia propulsiva, non cresce e non si rinnova, uno dei motivi principali è il fatto che le nuove generazioni sono diventate una forza debole e timida.
Abbiamo assistito negli ultimi decenni a un vero e proprio processo di "degiovanimento". Un neologismo necessario, perché alla base di tale processo sta un cambiamento storicamente inedito: la riduzione quantitativa dei giovani. Un fenomeno ancor più accentuato nella popolazione italiana che negli ultimi trent'anni ha perso quasi tre milioni di persone tra i quindici e i venticinque anni. Ci troviamo però di fronte a un paradosso. Proprio per il fatto di essere relativamente di meno, i giovani dovrebbero trovarsi favoriti, con maggiori spazi e opportunità .
Dovrebbero teoricamente essere più ricercati e trovare maggiore valorizzazione nella società e nel mercato del lavoro. E invece, in Italia, accade il contrario. Più basso è l'investimento sulla loro formazione (in particolare quella terziaria), minori sono le opportunità nel mercato del lavoro (in termini sia di occupazione che di remunerazioni), meno generoso nei loro confronti è il sistema di welfare pubblico. Il mancato adeguamento degli ammortizzatori sociali ci ha, in particolare, resi uno dei paesi avanzati che peggio bilanciano flessibilità e sicurezza e che, anche per questo, maggiormente incentivano i giovani a posticipare i tempi di una loro autonomia e di un loro pieno contributo attivo nella società . Si entra in una spirale negativa che frena la realizzazione di importanti obiettivi di vita, portando progressivamente a rivedere al ribasso ambizioni e aspettative.
L'essere sfruttati o il sentirsi comunque tali non genera mai effetti positivi. Il capitale umano non valorizzato spinge sempre più giovani ad andarsene. Chi rimane si rassegna, perde prima fiducia nella società in cui vive, ma poi anche in se stesso e nelle proprie capacità . I giovani non vogliono certo politiche assistenziali. Il futuro vogliono costruirselo a propria misura, ma potendo contare su strumenti adeguati. Se vogliamo che siano come gli acrobati del circo che fanno i salti mortali da un trapezio all'altro, non impauriti ma decisi e sicuri di sé, dobbiamo allora dargli due cose che negli altri paesi ci sono e da noi mancano.
In primo luogo migliore formazione e spazio adeguato ai talenti per emergere, qualunque siano le condizioni di partenza. Solo in questo modo ciascuno può dare il meglio di sé, a beneficio di tutto lo spettacolo, esibendosi nel ruolo a lui più adatto. E in secondo luogo migliore protezione sociale. Perché è vero che negli altri paesi i giovani si buttano di più, ma non hanno sotto una rete così fragile e piena di buchi come la nostra. In mancanza di tutto ciò si diventa più cauti e la voglia di innovazione e la propensione a puntare in alto anziché incentivate vengono frustrate. Anziché avventurarsi famelicamente in mare aperto si rimane allora timidamente in prossimità del porto sicuro della famiglia di origine. E infatti i dati Eurostat ci dicono che nella fascia d'età 16-30 quasi la metà dei giovani italiani dipende economicamente dai genitori, contro circa un terzo nel resto d'Europa.
Ma un sistema che affida protezione e promozione sociale quasi esclusivamente alla famiglia di origine aumenta, di fatto, ancor più la vulnerabilità verso lo sfruttamento. Nelle realtà europee più dinamiche e competitive i giovani sono incentivati ad essere partecipativi e a difendere, con strumenti adeguati, la propria indipendenza dai genitori e la permanenza nel mondo del lavoro. In tali contesti nessuno accetta un contratto sottopagato che non consente di mantenersi da soli. Solo in un sistema fondato sull'indefinito prolungamento della permanenza nella famiglia di origine si possono rincorrere contratti al massimo ribasso. La protratta dipendenza dai genitori permette lo sfruttamento e a sua volta lo sfruttamento accentua la dipendenza. Ecco allora che le proposte che i giovani degli altri paesi avanzati considerano irricevibili, da noi trovano sempre qualcuno che le accetta.
L'intensa dipendenza dei giovani italiani dalle risorse della famiglia di origine deprime, inoltre, la mobilità sociale e ne frena anche il dinamismo. I ventenni italiani sono, infatti, più abituati ad essere considerati (e a considerarsi) come figli destinatari di aiuti e favori dai genitori che cittadini con pieni diritti da difendere e da promuovere nei confronti dello Stato. Questo ha due conseguenze. La prima è un più basso impulso alla contestazione perché comunque i loro stili di vita sono protetti dall'accentuata e prolungata disponibilità di aiuto, spesso più che compensatorio, della famiglia. La seconda è che la loro reazione, da figli, tende ad essere di tipo individuale, anziché collettiva e generazionale, perché il loro benessere e successo sociale dipendono soprattutto dal sostegno che possono direttamente ottenere dai genitori.
Questo ripiegamento individuale dei giovani nella famiglia contribuisce quindi a mantenere il sistema bloccato. Una condizione che ricorda una scena del film L'angelo sterminatore di Luis Buñuel: alla fine di un concerto gli spettatori si trovano bloccati all'interno della sala nonostante non vi siano elementi fisici oggettivi che impediscano l'uscita. Una situazione surreale, che sembra ben rappresentare quella nella quale si trovano oggi i giovani, come avvolti in un incantesimo che svuota motivazioni e scelte. Un sortilegio che ha trasformato le nuove generazioni in un esercito immobile.
Ma solo loro possono rompere tale condizione sospesa riattivando, collettivamente, la forza del desiderio mobilitante. Diventando una vera generazione, non solo in senso anagrafico ma "politico", in grado di elaborare la visione di un futuro adatto alle proprie potenzialità e trascinando il paese in quella direzione. Un futuro che deve essere un luogo nel quale contano più le doti e le capacità dei singoli che le caratteristiche dei genitori. Nel quale essere giovane significa "avanguardia del nuovo" e non "soggetto immaturo". Ma anche nel quale le generazioni più anziane ritrovano l'ambizione e il gusto di formare e lasciare dopo di sé una generazione migliore, più adatta a cogliere le sfide dei nuovi tempi. È questo, del resto, il loro imprescindibile ruolo da quando l'uomo è uscito dalle caverne per inventarsi un nuovo mondo, più in sintonia con i propri desideri che con le proprie paure.
* Professore di demografia all'Università Cattolica di Milano
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