L'Oscar, il Gattopardo e Gigi Buffon
Domenica 18 Marzo 2012 alle 00:26 | 0 commenti
 
				
		
		Da VicenzaPiù n. 230
Il troppo poco celebrato terzo Oscar vinto per Hugo Cabret dallo scenografo italiano Dante Ferretti (condiviso con la moglie e collaboratrice storica Francesca Lo Schiavo) racconta per l'ennesima volta la storia di un italiano di provincia, Ferretti è nato a Macerata, che, all'estero, è riuscito a ricevere il massimo riconoscimento internazionale nell'ambito della propria professione grazie al suo indubitabile talento, al duro lavoro e alla cultura, quella sì, che deve più di qualcosa all'Italia.		
Ferretti, classe 1943, ha lavorato con i più grandi in Italia (Fellini,  Pasolini, Petri) e negli States (Scorsese, Burton, De Palma) e avrebbe  tutte le ragioni per sedersi sui propri - tanti - allori e "tirarsela"  anche un pochino. 
Poco dopo il suo primo Oscar, per The Aviator di  Scorsese, ebbi la ventura di scambiare con lui qualche battuta a margine  di un incontro pubblico avvenuto a Palazzo del Bò a Padova. Da giovane  fan mi approcciai a lui molto intimidito. Con una penna e un libro di  Scorsese aperto, gli chiesi se mi potesse fare la cortesia di regalarmi  un autografo-ricordo. Lui mi guardò sorpreso e con fare sinceramente  dubbioso mi chiese: «Ma sei sicuro che lo vuoi davvero il mio  autografo?». Neanche l'avessi chiesto alla prima casalinga di Voghera  che passava di lì. Io accennai un sì (son quelle cose che un ragazzo  cinefilo brama con un senso del feticismo fuori dal normale), lui  eseguì. Quindi, approfittando del suo atteggiamento quasi imbarazzato,  mi feci coraggio e cominciai a parlargli per qualche minuto. Gli chiesi  se per lui, maestro del design che per Gangs of New York fece  ricostruire artigianalmente la Grande Mela di fine Ottocento negli studi  di Cinecittà, la computer-grafica potesse rappresentare un ostacolo o  una risorsa. Ferretti, a sessant'anni compiuti e nonostante i proclama  dei suoi colleghi che vedevano il digitale come la "morte della  creatività", non ci pensò un attimo e disse: «Il digitale non può essere  considerato un problema, è una risorsa in più, sta a noi decidere se e  come utilizzarla».
Insomma, nonostante i successi, Ferretti non si  sentiva arrivato né tantomeno refrattario all'innovazione. Esattamente  il contrario di tanti "appoltronati" del Bel Paese che, una volta  raggiunto una certo posto di potere (economico, lavorativo, politico, ma  anche solo in una Pro-loco di paese), ad ogni novità si chiudono a  riccio e scatenano lobby e controlobby per mantenere lo status quo. Per  un Paese questo significa viaggiare sempre col freno a mano tirato.  Tiratissimo. D'altronde lo diceva Tomasi di Lampedusa, in Italia si fa  in modo che tutto cambi affinché nulla cambi. La vicenda di Ferretti  mostra invece come in un mondo competitivo, con tutte le sue  storpiature, come quello del cinema made in Usa, non si è mai arrivati  ma si è sempre in discussione e sempre pronti a cercare il  miglioramento. In tempi in cui si chiede ad un portiere di calcio di  insegnare l'etica e il rispetto (ma non dovrebbero pensarci i genitori a  questo?), se bisogna prendere ad esempio qualcuno, forse è meglio Dante  Ferretti.
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