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			Il che rimanda,  sia ai limiti di una kultur di un primo popolo incapace di una visione  da statualità egemone, che alla civilizzazione disordinata e localistica  di un secondo popolo del contado. L’editoriale scava impietosamente  nella civilizzazione incompiuta dei territori, nella microfisica dei  poteri dei notabili locali. Da capitalismo relazionale, da società  chiusa. Non a caso anni fa con De Rita, disvelatore di questo gene  egoista e con Cacciari, allora impegnato con il partito dei sindaci, a  proposito di deficit dell’élites locali ci interrogammo sul “Che fine ha  fatto la borghesiaâ€. Occorre scavare nel perché la coscienza dei  luoghi, evocata da Giacomo Beccattini, non ha prodotto una coscienza  delle élites locali oltre il notabilato, adeguata ai tempi. Se partiamo  dalla società stretta e dalla società larga di Leopardi, non v’è dubbio  che sovrapponendo la mappa della mezzadria del secondo popolo all’Italia  dei distretti, avremo la geografia del capitalismo di territorio con  tanto di banche locali in sofferenza, nel centro e nel nord del Paese  (altra è la mappa del latifondo che rimanda al sud con tanto di baroni e  cafoni). Ben colse questa simbiosi di territorio un altro marchigiano,  Giorgio Fuà, che scriveva del metalmezzadro sincretica figura di  produttore-lavoratore ed auspicava uno sviluppo senza fratture. Il tutto  avvenne, a proposito di statualità e territorio, ovattato in un non  detto, in un patto non scritto. Da una parte lo Stato e i partiti di  massa ed alcuni di micro élites in rapporto con la grande impresa  (Fiat), nell’Iri e nelle grandi banche d’interesse nazionale, e  dall’altra, in una specie di compromesso storico di territorio, che  coinvolgeva anche il Pci, lo sviluppo locale, i distretti, le Camere di  Commercio, dopo sarebbero arrivate le Regioni. Siamo cresciuti così in  forma duale formando a proposito di classi sociali, l’invaso dei ceti  medi studiati da Sylos Labini. Oscillando non solo tra kultur e  civilizzazione, tra statualità ed autonomie locali nella governance, ma  anche schizofrenici nelle tematiche economiche tra grande impresa e  grandi banche e piccolo è bello e banca locale. Il patto non scritto non  ha poi retto la sua scrittura federalista, trasformandosi in un  sindacalismo di territorio nella devolution abborracciata verso le  Regioni del Titolo V e nel venire avanti di un leghismo con velleità da  secessione e di un berlusconismo da individualismo proprietario con il  motto: crescete, arricchitevi e moltiplicatevi. Beccattini colloca nella  lunga deriva della storia lo sviluppo locale dei distretti, sostenendo  che fare impresa è un progetto di vita che rimanda alle virtù civiche  (Putnam) di cui Galli della Loggia denuncia la scomparsa nel notabilato  che ha come progetto solo “arricchirsi per arricchirsi sempre di piùâ€.  Che, sarà bene ricordare, è la variante provinciale e meno british delle  stock option, dei banchieri di Wall Street e della City. Il fallimento e  la crisi delle banche locali svela la fine di un ciclo. L’esaurirsi del  vitalismo del fare impresa all’ombra del campanile più che a quello  della storia. Partendo dal sottoscala della cascina collegandosi con il  sindaco imprenditore per fare il capannone, in simbiosi con la banca  locale si diventa notabile in Camera di Commercio ed infine si entra nel  Consiglio della Banca. In un intreccio da localismo metodologico a reti  corte nel circuito ossessivo del “casannoneâ€, la casa, il capannone e  la banca locale con le sue adunate di capitalisti molecolari-azionisti.  L’antropologia del capannone non basta più e non ha retto il salto  d’epoca, occorreva alzare lo sguardo. Passare dai distretti alle  piattaforme produttive per produrre e per competere, creando  aggregazioni di banche e di imprese, filiere in grado di confrontarsi  con la discontinuità della globalizzazione. Per fortuna non è andata  solo così. In questo humus di territorio hanno messo radici medie  imprese che sono l’ossatura resiliente del nostro capitalismo, con i  piedi nel territorio e la testa nel mondo. Tracce di un’élite produttiva  che si occupa di industria 4.0, di reti lunghe di export, e forse  proprio per questo, non si è fatta neoborghesia nei territori del  notabilato. Si vedrà. Quel che so è che la soluzione non può essere solo  la desertificazione del locale, del territorio, ove a breve  precipiteranno le sofferenze bancarie simulate nei falsi bilanci, ma  reali per il secondo popolo dei capannoni e dei mutui per le villette a  schiera. La soluzione non è la semplice disintermediazione di ciò che  sta in mezzo tra flussi e luoghi e tra statualità e territori. Concordo  con Galli della Loggia che chiude il suo editoriale auspicando un di più  di politica con una visione di “fini collettivi e più alti†da  patriottismo dolce direi e da statualità operosa. Ma per far questo  occorrono nervature degli interessi e delle passioni che rimandano alla  crisi delle forze sociali e dei partiti che attraversa territorio e  statualità. E’ la questione. Perché la desertificazione del territorio  produce rancori e populismi. Che se non scomposti e ricomposti nella  politica, senza scomodare la Brexit o la provincia americana che vota  Trump, ci basta l’Italietta, produce il territorio come enclave. Per  questo mi pare utile continuare a raccontare i microcosmi del  territorio.Â