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Prove di dialogo: identità islamica e integrazione tra rinnovamento generazionale e risposte istituzioni, parla Mustapha Ouanit

Di Citizen Writers Martedi 16 Febbraio 2016 alle 10:05 | 1 commenti

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Riceviamo da Mustapha Ouanit e pubblichiamo
Nel corso degli ultimi mesi, praticamente in ogni moschea del Veneto, e soprattutto dopo l'approvazione della legge antimoschee, e dopo quello che è successo a Firenze e a Torino, e le elezioni del cosiddetto consiglio degli stranieri a Vicenza, si assiste ad un confronto aperto, tra coloro che sostengono la necessità di preservare un’identità sentita come minacciata e coloro che invece rivendicano la necessità di essere parte integrante della società in cui vivono ed in cui i loro figli crescono.

Il caso dei due patti di "cittadinanza e di condivisione" siglati e stipulati, a Firenze e a Torino tra i comuni delle due città e le rappresentanze delle comunità islamiche, non sono altro che l'inizio di una nuova era d'integrazione interculturale, caratterizzata di convivenza e di accoglienza. Si tratta in realtà di un confronto "tredimensionale"  che riguarda ogni singolo migrante, combattuto incerto tra l’attaccamento alla tradizione, alle radici, all’origine e l’apertura al nuovo, al cambiamento e, in definitiva, ad una nuova identità capace di conciliare vecchie e nuove appartenenze. Il confronto nasce principalmente dalla spinta di una generazione emergente che, ansiosa di proiettarsi verso il futuro, interroga il rapporto che i genitori intrattengono con le radici, le tradizioni e la società in cui vivono. Ad essere indirettamente messa in discussione è l’idea stessa di comunità islamica così com’era stata elaborata dai genitori quando, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, hanno iniziato ad aprire le prime sale di preghiera.
Per capire l’importanza di quella che i musulmani preferiscono chiamare “moschea”, è necessario interrogarsi innanzitutto sulla funzione che ricopre la religione nel processo migratorio e da un indagine che io personalmente avevo fatto in 2015 per una tesi sui finanziamento delle associazioni islamiche in Italia, e più precisamente in Veneto, risulta che per molti migranti, la religione islamica, ed in particolare la pratica quotidiana, rappresenta una protezione contro quelli che i vari musulmani incontrati nel corso del tempo della mia ricerca definiscono “gli eccessi” della società italiana. L'algerino Abderrazzak racconta dunque di aver iniziato a praticare l’islam perché aveva “paura di perdersi” considerando  la moschea come un luogo d'incontro, mentre per il marocchino Lhaj el Maati  la religione “è un rifugio" e la moschea sempre secondo lui rimane "un posto di aggregazione". Le parole di Abderrahim, anche lui marocchino, sono ancora più emblematiche dice: “è da quando sono arrivato qui in Italia che ho cominciato a legarmi di più alle mie radici… quando sono partito da casa, non ero più nello spazio rassicurante della religione islamica, ma ero come un pesce fuor d’acqua… Quando sono arrivato in Italia, possiamo dire che ho fatto l’italiano, ma non era cosa per me”.
Per questi uomini, giunti in Italia anni fa, la moschea rappresentava dunque “la prima porta a cui bussare” in quanto punto di riferimento “per ogni persona che si perde, che perde il cammino”. La moschea, per riprendere le parole del nuovo presidente del centro islamico di Vicenza, Rom Abderrahim, è come “una candela che illumina il cammino del musulmano in tutti i sensi”.
La principale preoccupazione di quasi tutti coloro che hanno aperto le prime sale di preghiera in Veneto era dunque quella di salvaguardare l'identità della comunità islamica. Per alcuni di loro, invece,  si trattava, non solo di tutelare, ma anche di “risvegliare l’identità islamica integrandola nel nuovo tessuto sociale italiano” .
Per circa tre decenni, nonostante alcune importanti eccezioni dovute in particolare a leader lungimiranti che avevano capito l’importanza di restare dentro la città, i musulmani hanno dunque costruito le loro comunità senza prestare particolare attenzione alla relazione con la società italiana, che a sua volta ha sempre considerato i musulmani come stranieri e le comunità islamiche di passaggio, semplicemente come corpo estraneo alla società. Ma di fronte a figli ormai cresciuti e che non nascondono il loro sentirsi italiani, la posizione d’indifferenza o di chiusura dei padri risulta sempre meno sostenibile. Una domanda banale quanto fondamentale si pone infatti con sempre più urgenza alla prima generazione, quella dei padri migranti: “cosa fare di fronte a figli che si sentono italiani e che sembrano allontanarsi ogni giorno di più?”.
Rispondendo alla domanda, e precisamente, alla sfida lanciata dalla generazione emergente e di fronte alla paura di vedere i figli scappar via, da una parte c’è chi sostiene la necessità di preservare l’identità attraverso un maggiore isolamento e un codice comportamentale ancora più stretto e c’è invece chi, dall’altra parte, rivendica la necessità di uscire dalla marginalizzazione attraverso un nuovo ruolo nella società italiana, che passa necessariamente tanto per un riconoscimento da parte delle istituzioni, quanto per un’assunzione di nuove responsabilità da parte dei musulmani stessi. La mancanza di riconoscimento e legittimità da parte delle istituzioni, insieme ai continui discorsi anti-islamici o islamofobici prodotti da media e politici, è sicuramente uno dei fattori che maggiormente contribuiscono a rafforzare il procrastinarsi di discorsi e atteggiamenti vittimistici e di chiusura all’interno di numerose moschee in Italia. Ma le ragioni, contrariamente a quanto sostengano pubblicamente molti leader musulmani come sottolinea il nuovo presidente della moschea Ettawba di Vicenza il signore Rom Abderrahim, non sono solo esogene. Infatti, anche laddove colgono l’importanza di un’evoluzione interna e di un’apertura nei confronti della società italiana, le comunità islamiche si scoprono impreparate, non solo perché frammentate tra di loro, ma soprattutto perché prive di risorse umane oltre che economiche (è bene ricordare che le comunità, non potendo partecipare all’8 per mille, vivono quasi esclusivamente dei contributi dei fedeli). In molti casi, a mancare terribilmente non sono solo gli imam, ossia i “ministri dediti al culto”, ma anche e soprattutto leader che siano in grado d’interagire con le istituzioni, di parlare ai media e, più in generale, di definire una strategia d’azione, in tutti i lati, capace di far uscire le comunità islamiche dall’isolamento e dalla frammentazione. Il non aver dato sufficiente importanza alla formazione di una vera leadership è probabilmente il più grave errore strategico commesso da tutte le componenti della variegata comunità islamica durante i suoi trent’anni d’esistenza in Italia.
L'unica via di uscita sembra oggi rappresentata dai giovani di seconda generazione, come è stato richiesto negli due atti siglati a Torino e a Firenze, capaci non solo di parlare alla società in cui vivono, ma anche di sottrarsi all’approccio vittimistico in cui si son rifugiati una parte di coloro che hanno gestito le moschee fino ad oggi. Il primo ostacolo sulla via del rinnovamento sta nel fatto che, ad eccezione di qualche caso, “i vecchi” non hanno nessuna intenzione di abbandonare il controllo dei luoghi che hanno aperto per dare spazio a nuove forze che in molti casi metterebbero rapidamente a nudo la loro inadeguatezza. Ma l’esito del confronto all’interno delle moschee italiane dipenderà anche dalle risposte delle istituzioni pubbliche, spesso gestite da politici ed amministratori, pagati anche con i contributi dei musulmani,  che non hanno, addirittura, il coraggio o la capacità di riconoscere che l’islam è ormai parte integrante delle città venete che amministrano.
Mustapha Ouanit, membro del consiglio amministrativo dell'Unione degli immigrati di Vicenza, ex tesoriere del centro islamico "Ettawba" di Vicenza, ex responsabile culturale dell'associazione "Radici" dei marocchini di Vicenza, Un master in Islam d'europa con una tesi sui "finanziamenti delle associazioni islamiche in Veneto".


Commenti

Inviato Sabato 20 Febbraio 2016 alle 16:19

Se volete "l'integrazione",perché preoccuparsi dei figli che "scappano, in quanto si sentono italiani".
Forse vogliono integrarsi, ma VOI non dovreste aiutarli o avete paura di perderne il "controllo" ?
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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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