I discorsi di Pupillo e Bulgarini d'Elci per il 69° anniversario della Liberazione
Venerdi 25 Aprile 2014 alle 20:15 | 0 commenti
Il bomba day ha tenuto impegnato il sindaco di Vicenza Achille Variati essendo anche stato nominato commissario straordinario alle operazioni di disinnesco della maxi bomba trovata all'ex areoporto Dal Molin e così quest'oggi, 25 aprile 2014, è stato il vicesindaco e assessore alla Crescita del Comune di Vicenza Jacopo Bulgarini d'Elci a dare il saluto introduttivo in piazza dei Signori all'orazione ufficale di Giuseppe Pupillo, presidente dell'Istituto storico della Resistenza e dell'Età contemporanea della provincia di Vicenza, per il 69° anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Di seguito pubblichiamo integralmente il testo dei discorsi.
"Saluto le autorità , civili militari e religiose, le istituzioni locali e nazionali, le associazioni combattentistiche e d’arma, i sindacati e le forze politiche, e i cittadini che non hanno voluto far mancare la propria presenza pur in un giorno così particolare per la nostra città .
Saluto anche a nome del Sindaco, assente per la prima volta a questa celebrazione che gli è cara, che mi chiede di portarvi il suo abbraccio, impegnato come sapete nella gestione del Bomba day. Un grande impegno, una grande e operosa fatica che è anche una fatica di democrazia: non solo mettere in sicurezza ma anche convincere, informare capillarmente, prendersi cura di ogni cittadino, a partire da quelli che vivono una condizione di fragilità . Il sindaco non è qui con noi, ma credo che tutti noi oggi siamo – col pensiero e con il cuore – con chi si sta occupando in prima persona delle operazioni di disinnesco. A partire dai due specialisti artificieri che, proprio in questi stessi minuti, a pochi chilometri da qui, da questa bella piazza dove ricordiamo e celebriamo, sono impegnati a rendere inoffensiva la gigantesca e ancora, a distanza di tanti anni, pericolosissima bomba, rischiando ogni secondo la loro vita. Voglio ricordare i loro nomi: 1° maresciallo Massimo Careddu, sergente Francesco Loiodice.
E questa coincidenza di date fa riaffiorare immagini lontane. Penso alle bombe che caddero anche qui, proprio dove siamo, riducendo in fiamme la nostra amata Basilica.
Penso a una figura un po’ dimenticata della Resistenza vicentina, e recentemente oggetto di un giusto ritorno di attenzione grazie al lavoro dell’Istituto Storico della resistenza il cui presidente, Giuseppe Pupillo, a cui siamo tutti grati per il suo costante impegno civile, terrà fra poco l’orazione ufficiale. La figura è quella di Guido Revoloni, che in una domenica di fine maggio del ’45, a Dueville, perse la vita. La guerra era finita, ma le ferite della guerra rimanevano: ferite fatte di bombe inesplose, mine, ordigni che infestavano i campi. Gli addetti alla bonifica erano oberati di lavoro, Guido si rese disponibile per raccogliere e far brillare gli ordigni, consentendo ai contadini di tornare a lavorare la terra. Morì così, quasi 70 anni fa.
Quasi 70anni fa.
Io sono nato nel 1978. I miei genitori nel 1950. Né io né i miei genitori abbiamo conosciuto la guerra, vissuto la Resistenza, partecipato di quella pagina aspra e gloriosa.
E allora, qual è il senso per me? Per chi come me è tra i 30 e i 40 anni? Per chi è ancora più giovane?
Ci ho pensato e credo che sia in alcuni concetti. Concetti pesanti, non certo facili o leziosi. Che hanno a che fare con l’idea di scelta, ma una scelta forte e precisa, carica di concretezza. Concetti come la disponibilità a sporcarsi le mani con la terra e il sangue. La responsabilità che da questo deriva. Il senso di una chiamata. L’imperativo di agire. Il prendere le armi e le implicazioni che questo ha. Il mettere a rischio la propria vita. La partecipazione a qualcosa che è più grande del singolo individuo. Il sacrificio. La scelta di campo, radicale e senza compromessi. L’essere – per scelta e per senso del dovere - partigiani.
E mi chiedo: cosa è successo al nostro spirito perché la parola “partigiano†assumesse, anno dopo anno di più, un significato negativo? Come sinonimo non più di combattente per la libertà contro l’oppressore ma di persona faziosa, scorretta? Come opposto a un ideale – che viene dato come positivo - di equidistanza che poi si confonde con il qualunquismo e l’indifferenza? Come abbiamo potuto permettere che questa parola nobile e bella, partigiano, diventasse un’etichetta di cui vergognarsi anziché da rivendicare con orgoglio? “Sei troppo partigianoâ€, lo si sente spesso. E io dico: è giusto scegliere, essere partigiani.
Cosa è successo al nostro spirito, al nostro spirito collettivo e soprattutto allo spirito della nostra società , perché fosse possibile, come è successo pochi giorni fa, che un rappresentante dello Stato arrivasse a vietare in una città non lontana da qui, Pordenone, che il 25 aprile venisse intonata “Bella ciao� E motivava questa decisione adducendo motivi di ordine pubblico. Poi questa decisione incomprensibile e infausta ha visto un precipitoso dietrofront, sull’onda dello sdegno e delle proteste. Ma resta la domanda: com’è possibile che si arrivi a dire che cantare Bella ciao nel giorno della Festa della Liberazione rappresenta una minaccia per l’ordine pubblico?
Io dico che è vero esattamente il contrario: che ovunque si canti Bella Ciao, e ovunque si celebri la Liberazione e si ricordi la Resistenza, ovunque sventolino le bandiere tricolori e ovunque si radunino i labari gloriosi di chi ha combattuto per la libertà , lì si costruisce un presidio di democrazia, di fedeltà repubblicana, di lealtà costituzionale, lì si costruisce un presidio di ordine pubblico nel senso più alto, pieno, nobile.
La memoria non è solo nostalgia. Come la celebrazione della Resistenza non deve essere retorica. Coltivare questa memoria, celebrare questa festa, significa tenerla viva in ciascuno di noi, preservarla come memoria collettiva e condivisa. Ma significa anche farla vivere attraverso gesti e scelte concreti, e non solo parole. Per questo sono orgoglioso di annunciare che presto daremo all’Istituto Storico della Resistenza di Vicenza una nuova e più degna sede, adeguata al suo valore, a santa Corona, nel cuore della nostra città , perché possa con più forza diffondere il proprio lavoro di ricerca e conoscenza. Missioni preziose, indispensabili in tempi in cui l’ignoranza crescente nutre le farneticazioni di chi disprezza la storia, o addirittura la nega.
E oggi, profittate di questa giornata di festa per andare a visitare il Museo della Resistenza, a villa Guiccioli: i bus fino a monte Berico, così come l’ingresso al museo, sono gratuiti. Portateci i figli, i nipoti.
Citavo all’inizio del mio saluto Guido Revoloni, ferito a morte da un ordigno con un nome paradossale, una bomba a farfalla, che delle farfalle non ha la leggerezza né la grazia. Un giovane uomo che disinnescava mine senza strumenti né protezioni, armato solo della forza dei propri ideali di cittadino e, sì, diciamolo con orgoglio, di partigiano, di partigiano a guerra finita, di partigiano armato solo del proprio coraggio, armato solo della propria generosità .
E allora cos’è la Resistenza, per chi ne è anagraficamente lontano? È la pagina più gloriosa e bella della nostra storia come nazione e come popolo, perché è la storia che definisce la nostra stessa identità di nazione e di popolo. È la storia esemplare di persone normali, che non erano eroi ma che hanno scelto di comportarsi come eroi. Di persone come noi che di fronte alla chiamata della storia e all’appello della propria coscienza non si sono voltate dall’altra parte ma hanno scelto di rispondere a quella chiamata e di ascoltare quell’appello. Che hanno rinunciato alla tranquillità accomodante del quieto vivere, dell’indifferenza, del conformismo per abbracciare una scelta che sentivano, semplicemente e intimamente, come necessaria.
E la Resistenza vive qui: non solo nelle bandiere, nelle piazze che in tutta Italia ricordano, nel nostro radunarci ogni anno e nel radunarsi di tanti come noi, nelle canzoni come Bella Ciao che alla fine di questa cerimonia una volta di più canteremo tutti assieme, e canteremo forte abbastanza perché la sentano anche a Pordenone, forte abbastanza perché la sentano in ognuno dei luoghi in cui si prova, anno dopo anno, a negare e cancellare e umiliare la nostra storia, la nostra memoria, la nostra identità di nazione e di popolo, ma vive anche e soprattutto in ciascuno di noi, nelle scelte che facciamo ogni giorno, nella nostra fedeltà a un’idea di democrazia, di giustizia, di libertà , nella nostra inesausta volontà di pensare, sognare, edificare un mondo migliore e nella nostra disponibilità a impegnarci per questo, vive nel nostro cuore e nella nostra memoria individuale e collettiva, vive là dove ancora respirano e camminano quegli eroi che per questo si sono sacrificati, vive laddove nessun divieto potrà mai arrivare.
Viva la libertà , viva la resistenza, e viva Vicenza!
Jacopo Bulgarini d'Elci
Signor Prefetto, signor vicesindaco, autorità politiche, civili, militari e religiose, rappresentanti delle organizzazioni combattentistiche e delle associazioni partigiane, cittadine e cittadine.
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Proprio vent’anni fa, nell’aprile del 1994, Giuseppe Dossetti, allora un semplice monaco ma che prima di divenirlo era stato un partigiano, un esponente politico di primo piano ed uno, tra i più lungimiranti, dei padri costituenti, lanciava un appello per la formazione in tutta Italia di Comitati per la difesa della Costituzione di fronte a iniziative che intendevano stravolgerla in parti essenziali spezzando il legame storico ed ideale tra Resistenza - Repubblica - Costituzione.
Dossetti intendeva con il suo appello salvaguardare e valorizzare ancor più quel legame, ma ad esso dava uno sfondo storico ed una prospettiva più profondi e vasti individuando acutamente la sorgente della nostra Costituzione repubblicana soprattutto nell’evento epocale e terribile della seconda guerra mondiale che aveva provocato cinquantacinque milioni di morti, immense distruzioni, il crimine mostruoso dello sterminio degli ebrei, dei gitani e di altre minoranze e le cui cause stavano nelle concezioni aberrazioni che il regime totalitario nazista si proponeva di imporre, con la brutale forza delle armi, all’Europa intera.
Scriveva Dossetti “La Costituzione italiana è nata, ed è stata ispirata, come e più di altre pochissime Costituzioni, da un grande fatto epocale, cioè dai sei anni della seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente della storia del ventesimo secolo va considerato come un evento enorme del quale nessun uomo che oggi viva o anche solo che nasca oggi può o potrà attenuare la dimensione qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scrutiâ€.
Ad avvalorare le sue parole sta il fatto che la nostra Costituzione non è stata l’unico frutto prezioso della riflessione sugli orrori della guerra e sui crimini del nazifascismo così drammaticamente intensa e culturalmente profonda avvenuta già nei primi anni del secondo dopoguerra. Basta ricordare che dieci mesi dopo l’entrata in vigore della nostra carta costituzionale, l’Assemblea generale delle Nazioni adottò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e due anni dopo i paesi membri del Consiglio d’Europa approvarono la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Identica è l’ispirazione di questi fondamentali documenti.
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Con grande forza, la nostra Costituzione, la Dichiarazione dell’Onu, la Convenzione europea hanno rappresentato una risposta alternativa e positiva alle immani tragedie della seconda guerra mondiale, alle politiche belliciste e aggressive, alle aberrazioni razziste, alla negazione da parte dei regimi dittatoriali dei fondamentali ed inviolabili diritti umani.
Su questo la prima parte della nostra Costituzione, intitolata Principi fondamentali, è di una chiarezza cristallina.
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Severe e profonde riflessioni hanno preceduto la stesura di questi documenti. Ma la rimeditazione è stata ancora più intensa nei paesi democratici dell’Europa, ponendosi oggettivamente la questione, davvero cruciale ed inquietante, di cosa fosse stata l’Europa che nel ventesimo secolo aveva dato origine a due guerre mondiali e ne era stata il principale e più cruento teatro.
L’Europa, insomma, andava ripensata nella sua storia secolare, mettendone in luce le laceranti antinomie e contraddizioni tra il suo essere stata da un lato il luogo dell’abolizione dei poteri assoluti delle monarchie e quindi di nascita delle nazioni, degli stati di diritto, dei parlamenti; il luogo di sviluppo della scienza e della rivoluzione industriale che hanno cambiato il mondo; il luogo della progressiva affermazione dei diritti civili e sociali e dall’altro lato la culla di imperi coloniali che sfruttavano i territori e i popoli dei paesi sottosviluppati, la fucina di nazionalismi aggressivi e bellicisti, l’incubatrice di dottrine totalitarie e di teorie razziste.
Ed alla domanda di come liberarsi di questi mali e di queste contraddizioni sono state date nel secondo dopoguerra, sia pure gradualmente e faticosamente come avviene in ogni significativo processo storico, risposte positive, tant’è che l’Europa dopo essere stata per secoli il maggiore e più sanguinoso teatro di guerre d’ogni sorta è diventata un’area di pace e di benessere; tant’è che fin dal 1950 è cominciato un processo di cooperazione economica e politica che superando via via incertezze e ostacoli ha portato alla costruzione di un’Unione Europea, che fondata nel 1952 da sei stati tra cui l’Italia, oggi comprende 28 stati; tant’è che tra gli anni Settanta e Ottanta, e senza spargimenti di sangue, il nostro continente si è liberato dai regimi totalitari di ogni colore ripristinando, o instaurando, non senza ombre in alcuni nazioni, lo stato di diritto e la democrazia parlamentare.
Tutto ciò, perché in antitesi col passato, sono state percorse le strade del ripudio della guerra sostituite da negoziazioni e dalla creazione di un sistema di sicurezza collettivo, le strade della cooperazione
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In questa riflessione la Resistenza, o meglio i protagonisti politici della Resistenza europea operanti anche nell’immediato secondo dopoguerra, hanno avuto gran ruolo.
Sottolineo il termine Resistenza europea perché spesso siamo abituati a considerare la Resistenza e l’antitesi fascismo-antifascismo come vicende esclusivamente italiane, mentre in ogni paese europeo occupato dai nazisti – e ricordiamo che fino al 1942 l’occupazione tedesca si estendeva in senso orizzontale dalle coste francesi sull’Atlantico alle rive del Don e del Volga ed in senso verticale dalla Norvegia alla Grecia, comprendendo circa cinque milioni di chilometri quadrati e una popolazione di oltre 250 milioni di persone - in ogni paese europeo, dicevo, invaso dai nazisti si sono sviluppate forme di resistenza, armata laddove le condizioni territoriali lo permettevano, civile in quelle che non consentivano il ricorso a forme di guerriglia.
Ogni resistenza è stata diversa da nazione a nazione, ma tutte hanno avuto in comune non solo la lotta contro l’invasore nazista per riconquistare l’indipendenza nazionale, ma la consapevolezza che si trattava di una battaglia tra civiltà e barbarie, tra dittatura e libertà .
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Ricordare questo, mi consente di dire che la riduzione, ahimè fatta da molti, della nostra Resistenza a guerra civile, ovvero a scontro fratricida tra italiani, è in larga misura fuorviante. Il termine “guerra civile†avrebbe senso ove si fosse trattato di una vicenda esclusivamente italiana, ma ricordo che già nel febbraio del ’45 Livio Bianco, allora comandante nel Piemonte delle formazioni di Giustizia e Libertà , ovvero del Partito d’azione, scriveva “non si tratta di una comune guerra civile, di cittadini che lottano contro altri per impadronirsi con la forza del potere nel proprio paese, ma d’una guerra civile europea, anzi mondiale, dove si combatte per distruggere le forze del male, per gettare le fondamenta di un mondo miglioreâ€.
Ed il nostro concittadino Ettore Gallo, giurista così insigne da diventare presidente della Corte costituzionale, e che da giovane era stato tra i maggiori esponenti della Resistenza vicentina, ha più volte nei suoi scritti contestato, sotto il profilo storico e soprattutto sotto il profilo giuridico, il termine “guerra civileâ€. In realtà la Resistenza europea, benché diversa da paese a paese, ha avuto come elemento unificante la lotta all’invasore tedesco e alle aberranti concezioni totalitarie, sopraffattrici, razziste del nazismo.
La Resistenza è stata, in Italia ed in tutta Europa, una lotta di liberazione non solo dall’occupante, ma dalle idee demoniache del nazifascismo. Una lotta armata e civile, guidata da una visione morale e dalla volontà , di provare a costruire un mondo radicalmente diverso da quello che il nazifascismo avrebbe voluto imporre con le sue guerre d’aggressione.
La Resistenza in Italia ha avuto nel suo seno una forte moralità . Non solo perché a combatterla furono soprattutto giovani uomini e giovani donne, i quali compirono già una scelta di libertà arruolandosi nel partigianato come volontari, scelta dettata dalla coscienza e non dalla chiamata obbligatoria in un esercito regolare, ma perché fu una reazione di fronte allo sfacelo morale non solo del fascismo, ma delle classi dirigenti, militari e politiche, che dopo l’8 settembre avevano scelto la via della fuga e del mettersi al riparo sotto la protezione delle avanzanti armate anglo americani.
La Resistenza sarebbe stata impossibile se non avesse avuto nell’animo dei suoi combattenti una forza morale da contrapporre al disfacimento provocato dal fascismo e da quanti, dopo l’8 settembre, avevano dato prova di viltà .
Non c’è dubbio che la nostra Resistenza sia stata favorita dal fatto che le truppe alleate, dopo lo sbarco in Sicilia, stavano avanzando e liberando le regioni meridionali. Ed è fuor di dubbio che il grande afflusso, già all’inizio della primavera del ’44, di giovani nelle formazioni partigiane, anche nella nostra provincia, sia stato incoraggiato dallo sbarco ad Anzio il 22 gennaio 1944 delle truppe angloamericane, e da ciò era naturale attendersi che avrebbero liberato rapidamente Roma ed proseguito l’avanzata verso il Nord cacciando dall’Italia in pochi mesi le truppe tedesche.
Ma non fu così. Roma venne liberata solo il 4 giugno; Firenze in settembre, ma poi le truppe americane si fermarono a 20 chilometri da Bologna e le truppe inglesi rallentarono la loro marcia verso Ravenna, liberata solo in dicembre. E questo perché gli alleati consideravano ormai da mesi prioritario lo sbarco in Normandia e la liberazione della Francia retrocedendo il fronte italiano a fronte secondario, tant’è che diverse divisioni furono spostate dall’Italia in Francia; Francia che venne liberata interamente ai primi di settembre.
Il 13 novembre il capo delle truppe alleate nel Mediterraneo, Harold Alexander, lanciò un proclama via radio dicendo che la campagna estiva degli angloamericani era conclusa per riprendere solo in primavera e ordinava ai partigiani di cessare le operazioni su larga scala, di conservare le munizioni e materiali in attesa di nuovi ordini.
Ma di che tempra morale fosse la Resistenza lo si vide chiaramente proprio allora. Pensiamo, ad esempio, a ciò che accadde nella nostra provincia soprattutto nel mese di settembre, quando si succedettero i terribili rastrellamenti nei Lessini, a Granezza, nelle vallate dell’Agno e del Chiampo, sul Monte Grappa che scompaginarono gran parte delle formazioni partigiane. Un colpo durissimo con centinaia di morti tra partigiani e civili che pose al nostro partigianato enormi problemi, tanto più che l’arrestarsi dell’avanzata anglo americana permetteva ai nazifascisti di estendere i rastrellamenti e le retate dalle zone montane e collinari alle zone urbane e di pianura. Il proclama Alexander rappresentò un altro colpo, perché significava che la liberazione dell’Italia era rimandata a data da destinarsi. Ciò poteva portare scoraggiamento, e quindi l’accettazione di quanto chiesto da Alexander.
Ma furono proprio quei duri mesi autunnali e invernali che imponendo in modo definitivo ai partigiani la scelta tra il resistere o il desistere e mostrarono inequivocabilmente quale fosse la natura, lo spirito, la tempra morale della Resistenza. Essa seppe pur dopo le dure sconfitte subite nel settembre e nell’ottobre del ’44 – e la più grave e cruenta fu quella del Monte Grappa - e le sempre più massicce retate nei centri urbani, riorganizzarsi. Anzi quelle sconfitte, con il sacrificio di tanti resistenti (fosse esso la morte, la deportazione, il carcere) rafforzarono in molti non solo il vincolo dell’impegno per la liberazione della Patria, ma anche quello di onorare il debito verso i caduti o gli incarcerati e torturati e contribuirono a dare a molti ulteriore forza morale nel continuare la lotta, quali che fossero le difficoltà e in rischi personali.
E difatti non si spiega compiutamente il tener duro della Resistenza italiana e vicentina sino ai giorni della Liberazione, se tra le primissime ragioni di esso non includiamo il tessuto morale che vicende pur amare avevano rafforzato.
La resistenza non poteva accettare le indicazioni di Alexander di limitare i propri compiti ed attendere la primavera. E ciò non per ragioni militari, ché anzi le ragioni puramente militari potevano in buona parte giustificare le direttive di Alexander. Non lo potevano soprattutto per ragioni ideali e morali, perché essa voleva dimostrare la volontà di riscatto del popolo italiano, dopo vent’anni di regime liberticida fascista, dopo che il fascismo era stata la sorgente di tutti i fascismi via via insediatisi in Germania, Spagna o Romania o che in diversi paesi europei avevano acquisito non poca influenza.
Per la resistenza partecipare attivamente alla liberazione dell’Italia significava restituire dignità alla nostra Patria , anticipandone il suo reinserimento nel novero delle nazioni democratiche.
Sappiamo bene che le armate alleate, anche da sole, avrebbero cacciato i tedeschi dall’Italia e abbattuto ilo stato fantoccio della RSI, ma
se non vi fosse stato a Cefalonia, a Rodi e in altri luoghi la resistenza dei militari italiani spinta sino al sacrificio estremo contro la volontà dei tedeschi di disarmarli e catturarli;
se non vi fosse stato il rifiuto di quasi tutti gli oltre seicentomila militari italiani internati in Germania di riavere la libertà in cambio del riprendere le armi a fianco dei tedeschi;
se non vi fosse stato l’aiuto di una parte della popolazione agli ebrei ed a quanti erano oggetto di caccia da parte dei nazifascisti;
se non vi fosse stata la Resistenza armata di decine di migliaia di giovani (e ben quarantacinquemila, ai quali va il nostro reverente pensiero, persero la vita) ed a loro sostegno la resistenza civile;
se tutto ciò non vi fosse stato, sarebbe piombata, pur nella riconquistata libertà , sul nostro popolo l’onta dell’opportunismo, della codarda furbizia, della estraneità ai valori morali e ai doveri civili che costituiscono la spina dorsale delle nazioni realmente democratiche.
Guai se il popolo italiano avesse accettato passivamente che la sua liberazione fosse opera solo delle truppe angloamericane. E’ solo il contributo dato dai partigiani alla cacciata dei tedeschi che permise poi nel ’46 al nostro governo di partecipare alla conferenza di pace Parigi, sebbene in essa l’Italia dovette in parte scontare l’essere stato il paese che per primo aveva dato vita a regimi fascisti.
E noi vicentini abbiamo l’orgoglio che la nostra città e la nostra provincia hanno dato un grande contributo,sebbene ancora sottovalutato dalla storiografia resistenziale, con ben tre divisioni partigiane e tante e diffuse reti di resistenza civile, alla lotta di liberazione. E per ciò hanno pagato un prezzo assai alto di morti in combattimento, di fucilati, impiccati, incarcerati, torturati. Ma sarebbe retorico, ed anzi stupido, il nostro orgoglio, se noi non testimoniassimo coi fatti, col nostro impegno civile la riconoscenza che loro è dovuta.
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Autorità , cittadine e cittadini,
ho cominciato il mio discorso partendo volutamente da Dossetti perché nel 1994 egli pose con forza il problema di valorizzare l’eredità della Resistenza sviluppando le potenzialità riformatrici insite della nostra Costituzione.
Tuttavia sono passati vent’anni da allora, e poiché il mondo e l’Italia sono ancor più radicalmente cambiati non solo rispetto agli anni Quaranta ma anche agli anni Novanta, occorre, ancora oggi, chiedersi, senza alcuna retorica che sarebbe solo fasulla, ma con lucidità di ragionamento, se ci sia ancora un’eredità della Resistenza. La domanda è quanto mai pertinente perché viviamo in anni in cui, anche a causa della nostra lunga crisi economica e occupazionale, ma non solo per quella, è progressivamente e fortemente calata la fiducia dei cittadini verso i governi, verso le istituzioni e verso i partiti. E si è inoltre indebolita in Italia, ed in molti paesi europei, la fiducia nell’Unione Europea e ciò è in larga misura responsabilità della stessa Unione Europea. In questo clima di sfiducia, non è certo in discussione la legalità della nostra Carta costituzionale, ma piuttosto la sua legittimità , ovvero il riconoscere pienamente da parte dei cittadini che essa è ancora la stella polare che indica le strade da percorrere.
Parlare dell’eredità ancora viva della Resistenza sarebbe troppo lungo, per cui mi limito ad accennare solo tre temi cruciali.
Per dirvi il primo, ricordo ciò che Licisco Magagnato scrisse su Giuriolo mettendo in rilievo come in questo nostro grande concittadino l’impegno morale precedesse il suo pur assai attivo impegno politico. Sappiamo che politica e morale sono campi tra loro diversi, sappiamo che una politica che sia semplice vassalla della morale è spesso inefficace, predica ma non agisce. Detto questo, è però evidente che nel nostro paese c’è una frattura sempre più ampia tra governati e governanti, tra paese reale e paese legale, tra cittadini e istituzioni, testimoniata non solo e non tanto dalla minore affluenza alle urne, quanto dall’espandersi dei fenomeni non solo di giusta protesta sociale, ma di antipolitica, di populismo, di demagogia, di posizioni che fanno leva più sulla critica rabbiosa che non sulla proposta.
Non si recupera un solido rapporto tra cittadini e politica ove quest’ultima non abbia una rigenerazione morale, ovvero ove essa non intenda se stessa come responsabile e doveroso servizio alla collettività . E qui occorre davvero dar vita ad una robusta resistenza contro la degenerazione e gli inquinamenti della politica e contro ogni forma di corruzione.
Il secondo riguarda la Costituzione che è ciò che di più grande ci ha lasciato la Resistenza. Costituzione che resta in gran parte inattuata nelle sue preziose indicazioni riformatrici, e quindi il problema non è solo la difesa della Costituzione, ma è soprattutto lo sviluppo delle sue grandi potenzialità . Certo alcune sue norme, nel titolo primo e nel titolo quinto della seconda parte della Costituzione, vanno cambiate ed alcune lo sono state negli anni passati, ma non si può dire che esse abbiano migliorato la nostra carta fondamentale, anzi! E ciò perché è mancato un autentico spirito costituente, un dibattito culturale e politico all’altezza di quello degli anni ’46 e ’47, dove ci fu scontro tra visioni culturali e politiche diverse, ma alla fine una sincera condivisione grazie a una positiva, intelligente e lungimirante, mediazione. Non si modifica positivamente una Costituzione a colpi di maggioranza o ove si abbiano di mira soprattutto gli interessi contingenti della propria parte politica ed ove non rispetti la grande architettura istituzionale costruita dai nostri padri costituenti. I padri costituenti hanno guardato al futuro, ed in ciò consiste la grande politica, mentre oggi una politica che ha per unico orizzonte il presente non riesce a pensare e proporre oltre la contingenza immediata.
Il terzo riguarda l’Unione Europea. Un’Europa federale fu l’idea di alcuni uomini dell’antifascismo ancora prima della Resistenza, e cito naturalmente Altiero Spinelli che nel confino di Ventotene scrisse nel ‘37, col sostegno di Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita, testo fondativo del federalismo europeo. Manifesto che grazie a Ursula Hirschmann (sua futura moglie) circolò tra gli antifascisti e poi durante la Resistenza. E nel 1952 l’Italia fu uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea.
Ma da qualche tempo a questa parte si sono sviluppati, incontrando favori crescenti, movimenti antieuropeisti che propongono il ritorno alla piena sovranità degli stati nazione o addirittura secessioni dagli Stati nazioni per creare separate entità territoriali a loro volta sovrane. Ma se questi movimenti antieuropeisti si sono svilupparti buona parte della responsabilità è dell’Unione Europea, oggi prigioniera dell’inefficace ideologia dell’austerità ; totalmente priva di una propria politica estera; attualmente impegnata in un patto commerciale con gli Stati Uniti, il cosiddetto partenariato transatlantico che rischia di spazzare molte delle conquiste normative, molti dei diritti sociali che hanno caratterizzato l’Europa. e di dare
Non è qui, ovviamente il caso, di intrattenervi sui mali che affliggono il nostro continente.
Voglio dire che se noi vogliamo che il 25 aprile non sia una pura commemorazione di un lontano passato, per quanto glorioso, ma riviverne la grande eredità ideale e culturale che ci ha lasciato, il nostro dovere consiste nell’agire su tre fronti di lotta fondamentali: la lotta alla corruzione, la piena attuazione della Costituzione, la costruzione di una vera e pienamente democratica unità europea.
Viva la Resistenza, viva l’Italia, viva una vera Europa libera e unita.
Giuseppe Pupillo
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