Il Paese dei buoni e dei cattivi
Domenica 8 Gennaio 2012 alle 12:35 | 0 commenti
Perché il giornalismo invece di informarci, ci dice da che parte stare
Una democrazia refrattaria alla complessità : è questa l'immagine impietosa dell'Italia che esce dal saggio "Il Paese dei buoni e dei cattivi. Perché il giornalismo invece di informarci, ci dice da che parte stare", scritto da Federica Sgaggio, giornalista veronese redattrice de L'Arena, uscito per i tipi di Minimum Fax.
In quasi vent'anni di berlusconismo (e di speculare anti-berlusconismo), lo sprofondamento dei partiti ha delegato ai giornali il compito di creare comunità basate sulla contrapposizione "noi contro di voi", abbandonando l'inchiesta e l'approfondimento. Ne abbiamo parlato con l'autrice che è stata a Vicenza il mese scorso per presentare il libro alla libreria Novearti.
Nel suo libro descrive la fine del ruolo di elaborazione dei partiti, la nascita di una "democrazia della paletta" sul modello dei social network, dove possiamo solo dire "mi piace" o "non mi piace", l'esaltazione acritica della "meritocrazia", concetto alquanto fumoso e scivoloso, la convergenza bipartisan su alcuni temi e "riforme". Sembra quasi che la realtà mediatica descritta nel suo libro si sia trasferita a piè pari nel nuovo governo Monti.
C'è stata una inversione di polarità solo apparente: le parole d'ordine sono sempre quelle, uguali per la destra e per la finta sinistra. Non so se è nata prima la povertà del linguaggio o l'intenzione di cambiare la realtà con un linguaggio povero. Quel che vedo è che, chiunque sia al governo, la complessità è qualcosa con cui il giornalismo non ha intenzione di fare i conti: sul nuovo governo per esempio, a chi introduce qualche concetto complesso di critica, si risponde in due modi: o "sei un complottista" oppure "siamo obbligati a fare così perché ce lo dice l'Europa". Ogni opinione eccentrica non è oggetto di critiche ma di ostracismo, le critiche diventano illegittime anche se si esprimono attraverso le domande. Per esempio, come giornalista e come cittadina vorrei capire che cosa comporta il fatto che leggi finanziarie nazionali saranno viste prima dalla Ue prima dell'approvazione? Chi le redigerà , come cambierà il ruolo dei ministeri delle finanze? Al di là dei titoli sparati, nessuno è andato a chiederlo.
A scombinare le abitudini e gli schieramenti è anche il fatto che nel suo libro sono oggetto di critica alcuni giornalisti e scrittori divenuti simbolo dell'opposizione, per esempio Roberto Saviano e Michele Santoro. In loro lei vede dei "brand", più che dei portatori di contenuti critici. Perché questa scelta?
Oggi sembra non ci sia nessuna alternativa: se non sei un brand, un marchio, un testimonial, non hai diritto di parlare. E nel momento in cui lo d iventi semplifichi la realtà , salti passaggi concettuali, diventi qualcuno che si porta dietro la gente, il meccanismo è quello della delega. Chi incarna questo modo di agire? Ho analizzato questi nomi perché calzanti, non è una selezione arbitraria. Lo stesso Santoro dice che la sua è una "comunità ", parlando del pubblico che lo segue. Oppure il sito del Corriere della sera ha preso a pubblicare le inchieste di Milena Gabanelli. Ora, i giornalisti del Corriere saranno diverse centinaia, possibile che nessuno di loro avesse voglia di fare le inchieste? Probabilmente lo vorrebbero, ma a loro non è concesso. La Gabanelli è un marchio: al di là di qualità giornalistica del suo lavoro, il problema è che per pubblicare le inchieste bisogna avere un "nome". E' un problema gravissimo. Dentro ai giornali noi redattori possiamo solamente "tirare una carretta", gli spazi di inchiesta o di opinione sono occupati da opinionisti e grandi firme. Ma perché non posso affidare la linea di un giornale ai giornalisti interni? Il Giornale di Vicenza qualche anno fa lo faceva, poi ha smesso.
Quanto di quello che racconta si riflette in una redazione di un giornale locale?
Anche nei giornali locali non si riesce ad affrontare la complessità . Pensiamo per esempio a come viene trattato il tema delle ordinanze contro chi chiede l'elemosina. Siamo arrivati al punto che non riusciamo a sopportare il fatto di dover affrontare un questuante per strada, perché siamo messi di fronte all'immagine di noi stessi di fronte all'ambiguità : una parte di noi non sa dire di no, siamo di fronte a una scelta. Tutto questo ci pone di fronte alla complessità , che non vogliamo affrontare. Quindi la risposta è chiedere che ce li levino di torno. E i politici e i giornali amplificano questo atteggiamento, anziché problematizzarlo.
Rispetto ai giornali locali c'è anche il problema del precariato dilagante. Ma quando sento dire dai precari che sono ricattabili perché pagati poco, mi arrabbio: se sei ricattabile prendendo 300 euro al mese, lo diventerai ancora di più quando ne guadagnerai 3000. I giornalisti devono reagire, ci sono già troppi servi nei giornali.
Nel libro viene smontata la retorica dell'antimeridionalismo usata a piene mani nei media. Qui in Veneto è cosa diffusa, anche un anno fa, dopo l'alluvione che ha colpito Vicenza, la lamentela e il confronto con il sud sono diventati un leitmotiv di politici e gente comune, quasi un modo per scaricarsi di un po' di colpe molto "locali" per quanto successo.
La lega è di moda, ha liberalizzato la scoreggia. Puoi dire qualunque cosa, non c'è parolaccia pronunciata che non sia stata amplificata dai giornali. Le frasi razziste all'inizio erano riportate come cose sulle quali ridere, ma alla fine abbiamo aperto una nuova frontiera al dicibile e al pensabile. Il loro pensiero non solo è legittimo, ma è il più legittimo, non devono rendere conto di quanto dicono. Calderoli dice che il nuovo ministero della coesione territoriale è uno "schiaffo al nord" e poi che il nord "non potrà accettato questo schiaffo". Tra prima e seconda affermazione ci sono una serie di nessi logici che saltano. Il lettore non è portato a ragionare sulle frasi. Quando c'era la Dc queste cose non le potevi dire nemmeno se le pensavi, c'era differenza tra il discorso da bar e il discorso pubblico. La chiamavano ipocrisia, ma le forme in democrazia hanno un senso.
Un'altra retorica che affronta nel libro è quella della "meritocrazia". All'università di Padova da un anno è in vigore un sistema di bonus e malus sulla base dei voti: chi ha i voti più alti può pagare fino al 20% in meno di tasse, chi più bassi fino al 20% in più. Molti studenti che si mantengono gli studi con lavoretti precari o in nero, e che quindi non rientrano nella fascia tutelata di "studente lavoratore", si trovano a dover pagare di più perché hanno meno tempo per studiare. Eppure la "meritocrazia" - termine di cui nel libro si racconta l'incredibile origine - è una ricetta accettata a destra come a sinistra.
La meritocrazia è classista, non c'è niente da fare. Essere titolare di un merito è il risultato di una condizione che non è mai solo frutto di una dote innata. Dipende dai genitori, dalla cultura che si respira in casa, dal giro di relazioni e di frequentazioni. A parità di condizioni di merito di partenza, tra due ragazzi con gli stessi stimoli va avanti quello che ha più soldi. Il merito è costoso da coltivare. Eppure nei giornali nessuno va a fare domande troppo specifiche, per esempio all'ex ministro Brunetta, perché fa comodo portare il lettore dalla propria parte, farlo sentire dalla parte dei "meritevoli".
Parliamo di un tema locale: gli scandali dell'evasione fiscale nel settore della concia, nella valle dell'Agno. In quel caso i programmi di Gabanelli e Santoro hanno dato almeno un rilievo nazionale alla notizia. Come è stato trattato il caso dall'informazione locale?
Hanno fatto bene ad amplificare la notizia: in quei programmi lavorano giornalisti molto bravi, ci mancherebbe altro, non intendo criticare il valore di molti dei loro servizi. La notizia è stata invece piuttosto sottovalutata da giornali locali. Per esempio non sono state prese in considerazione le implicazioni tra evasione fiscale, lavoro nero e condizioni ambientali precarie. Credo ci sia un legame fra il modo di gestire quel tipo di economia dal punto di vista finanziario e dal punto di vista ecologico.
Facebook è solo uno strumento di semplificazione e di sterile polarizzazione, con il sistema dei "mi piace" e dei "fan", oppure può aiutare a diffondere informazione alternativa?
E' uno strumento straordinario che ci mette a contatto con persone con cui prima non saremmo mai riusciti ad avvicinarci, arricchisce molto dal punto di vista personale. Sul lato delle informazioni, è vero che si trovano molte cose in rete, ma credo che la professione del giornalista abbia le sue regole deontologiche. Su internet secondo me ci troviamo fonti, non giornalismo. Credo molto nel lavoro del giornale come opera collettiva, mentre il cosidetto "citizen journalism" mi lascia perplessa: chi pretende di dire "la verità ", chi si presenta come il "vendicatore mascherato" che spiega tutto mi insospettisce. Nonostante questo molte delle cose più autorevoli lette ultimamente le ho trovate su internet. Non esiste un dualismo fra carta stampata e rete, i due mondi dovrebbero completarsi a vicenda.
Il giornalismo può cambiare, può tornare al servizio della comprensione della realtà ?
Il libro nasce dalla volontà di dare la mia testimonianza. Mi sento in colpa per quanto è successo al giornalismo negli ultimi decenni, io c'ero, non ero da un'altra parte. Faccio parte di questa professione, non posso chiamarmene fuori. A livello individuale nessuno pensa di avere la responsabilità di questa degradazione, ma a livello collettivo è una responsabilità che abbiamo.
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