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I sottoEXPOsti del Nordest
Lunedi 27 Aprile 2015 alle 10:33 | 0 commenti
Almeno uno, per fortuna, continua a crederci: Matteo Renzi. Lui, il premier ex boy scout, il campione del pensiero positivo, il generale che non smette di spronare le truppe italiche verso il Grande Riscatto, la sua parte seguita a farla: a ogni occasione ripete come un mantra che l’Expo di Milano non solo sarà un successo, ma ridarà onore e gloria al Paese a livello internazionale.
C’è da augurarselo: mai come oggi, giunti bene o male ai nastri di partenza, bisogna stare dalla parte del presidente del Consiglio e sperare che i gufi (tanti, per la verità , e di tutti gli schieramenti) siano costretti, risultati alla mano, a starsene zitti. Il grave è che gli italiani non la pensano affatto come Renzi. Certo, non tifano contro. Ma nemmeno a favore: rimangono sostanzialmente indifferenti. E magari finisse qui, perché la verità è ancora più sconcertante: un terzo dei cittadini del Belpaese, a una manciata di giorni dall’inaugurazione e a dispetto del tam-tam mediatico (e dei vari scandali finiti in prima pagina), l’Expo non sa nemmeno che cosa sia.
Noio volevà n savuar...l’indiriss...Proprio così: l’indagine Last (Laboratorio sulla società e il territorio) realizzata da Community Media Research, società di analisi guidata da Daniele Marini, professore di Sociologia all’Università di Padova, mostra una fotografia impietosa. Alla Totò e Peppino. O poco ci manca. Non finisce qui: in questo quadro di per sé sconfortante, il Nordest si staglia con i risultati peggiori in assoluto. I «sottoEXPOsti», come li definisce l’indagine, cioè coloro che non hanno mai sentito parlare dell’evento o che ne hanno una conoscenza profondamente errata, sono il 37,3 per cento, dato che sale al 43,7 per cento in Trentino Alto Adige, al 45 per cento in Veneto e al 47,5 per cento in Friuli Venezia Giulia. Per contro, gli «EXPOnenti», quanti hanno una conoscenza approfondita e corretta della kermesse milanese, risultano appena il 16,9 per cento, percentuale che scende al 14,3 per cento a Nordest. Se tanto mi dà tanto, nessuno stupore che gli italiani (con i nordestini ancora una volta a trainare il gruppo) siano quanto meno scettici quando il discorso cade sulle ricadute. Vale a dire su ciò che potrebbe restare quando il 31 ottobre nell’area di oltre un milione di metri quadrati in quel di Rho, verranno spente le luci. Gli «EXPObooh», chi non riesce proprio a capire se alla fine prevarranno gli effetti positivi o quelli negativi, arrivano al 43,8 per cento e salgono al 48,9 in Veneto, al 57,9 in Trentino Alto Adige, fino al 69,6 per cento in Friuli Venezia Giulia. Non si parli poi di Expo come opportunità per la creazione di nuovi posti di lavoro (lo spera il 41,9 per cento degli intervistati, che calano al 36,5 a Nordest). O addirittura come motore per il rilancio dell’intera economia (a crederci è non più del 35,8 per cento nella media nazionale e del 31,6 a Nordest). Conclusione: gli «EXPOfan», alla Renzi per intenderci, toccano a malapena il 25 per cento, e crollano al 23 per cento in Veneto, al 10,5 in Trentino Alto Adige, al 4,3 per cento (!) in Friuli Venezia Giulia.
Grido di battaglia: portiamoli qui. Ha voglia Aldo Bonomi, fondatore del Consorzio Aaster, il sociologo dei distretti, l’esperto al quale è stata affidata l’organizzazione della Mostra dei territori che animerà il Padiglione Italia, a sostenere che l’evento è destinato a riverberarsi sulle venti regioni da Nord a Sud, che non sarà una fiera come un’altra magari un po’ più grande, che considerati i 130 Paesi presenti e i 20 milioni di visitatori attesi, «non si potrebbe immaginare occasione migliore per creare le famose reti lunghe su cui volenti o nolenti si muove l’economia internazionale». Tutto vero, tutto giusto. D’altronde il tema, Nutrire il pianeta, energie per la vita, è centrale per la ridefinizione di un modello di sviluppo sostenibile. E, se non bastasse, ci sono l’importanza e il peso della nostra industria agroalimentare: 132 miliardi di fatturato, 58 mila imprese, 385 mila occupati, 34,3 miliardi di export (5 miliardi l’export dal solo Veneto). Peccato che tra le (buone) intenzioni e la realtà ci sia una distanza abissale. Saranno stati gli scandali e gli arresti eccellenti: Enrico Maltauro, giusto per fare un nome assai noto in Veneto. I ritardi: vedremo il 1° maggio quante parti saranno oggetto del famigerato camouflage. La lievitazione dei costi: il solo Padiglione Italia è passato dai 63 milioni previsti ai 92 effettivi. Fatto sta che l’Expo rimane per la maggior parte degli italiani, e in particolar modo per i giovani, che al contrario avrebbero dovuto essere quelli più sensibili all’argomento, una sorta di oggetto misterioso, lontano, da prendere con le pinze, o peggio di cui diffidare.
Il Nordest, come si vede dalle indagini, non fa eccezione. Anzi. Un conto sono i proclami: «Per la prima volta stiamo facendo squadra», «mai come in questa circostanza Lombardia e Veneto camminano insieme», eccetera eccetera. Altra cosa è crederci per davvero. E provare a cavalcare la straordinarietà dell’Expo con un’idea forte, un progetto preciso, un obiettivo chiaro. «La verità » sorride amaro Marini «è che si parla sempre di cabina di regia, ma la cabina di regia non c’è stata nemmeno questa volta. Ci si è mossi come al solito, in maniera spontaneista, sparpagliati alla meta. Il grido di battaglia è stato da subito uno solo: portiamoli qui. Se non tutti, almeno cinque, dieci milioni: il più possibile. Qualcosa si porterà a casa, ovvio: le occasioni di scambio non mancheranno, si potranno di sicuro aprire contatti produttivi e commerciali. Ma con queste premesse è difficile che l’Expo riesca ad avere un impatto sistemico sull’economia del territorio». La conclusione non può che essere pessimista. L’università Bocconi in un suo studio ha indicato ritorni per 25 miliardi dal 2015 al 2020 e la creazione di 199 mila nuovi posti di lavoro tra attività dirette e indotto? A Nordest arriveranno solamente le briciole.
La porta (pardon, il portale) dei desideri. Per carità , numerose imprese sparse lungo l’asse della Serenissima hanno avuto un ruolo di primo piano nella realizzazione delle strutture. Con tutte le conseguenze del caso, purtroppo. E anche nei sei mesi dell’apertura al pubblico il Nordest non rimarrà a guardare. Il Padiglione del Vino, un pezzo da Novanta all’interno dell’Expo, è stato affidato alle mani esperte e sicure dei veronesi di Vinitaly. La Illy di Trieste curerà il cluster del caffé. L’Orto botanico di Padova ricreerà il «parco della diversità ». Come dire: le eccellenze sono eccellenze. Ci sono, inoltre, le settimane dedicate alle singole regioni: il Veneto andrà in scena dal 2 all’8 ottobre in uno stand di 200 metri quadrati concepito sulla sagoma di una villa palladiana e incentrato sull’esaltazione della produzione agroalimentare.
Sul territorio, invece, il piatto forte è rappresentato dal portale www.expoveneto.it. Nato come iniziativa privata per volontà di Luigi Brugnaro, ex presidente di Confindustria Venezia e oggi candidato sindaco nella città lagunare, expoveneto ha ottenuto il riconoscimento ufficiale della manifestazione (a partire dal logo) e ha raccolto l’adesione delle associazioni di categoria, di Legacoop, dei sindacati. Su tutto, il patrocinio della Regione Veneto. Una vetrina tradotta in 27 lingue che vede protagoniste 1.500 aziende, con oltre 500 eventi proposti: itinerari, mostre, visite guidate e chi più ne ha più ne metta. «L’obiettivo» spiega Paolo Bettio, motore del comitato dopo l’addio di Brugnaro «è presentarsi al visitatore come unico interfaccia, in modo che possa programmare una trasferta in Veneto su misura, unendo magari l’utile di un percorso d’affari con il dilettevole di una gita a Venezia o a Verona».
Intento lodevole, non c’è dubbio. Senonché si scopre che nemmeno il portale expoveneto è riuscito a limitare i danni del fai-da-te. In ogni provincia, nella migliore delle ipotesi con il coordinamento della Camera di commercio, si moltiplicano ora dopo ora le offerte, spesso non si capisce rivolte a chi. Belluno prova a spingere le Dolomiti. Le terre del Soave propongono itinerari in bici. Senza contare le cantine aperte e le sagre paesane. Un trionfo di sigle, interessi particolari, campanili.
Insomma, il Nordest perde il pelo ma non il vizio. Lo sbandierato gioco di squadra è andato rapidamente a farsi benedire. E allora (ri)salta fuori la domanda delle domande: che cosa resterà di questo Expo? No, non i terreni e le strutture laggiù, alla periferia di Milano, su cui pure gravano incognite pesanti come macigni. Che cosa resterà qui, nella macroregione (di fatto) che va da Verona a Trieste?
Il lascito più importante, forse, potrebbe essere il padiglione realizzato a Porto Marghera dall’architetto Michele De Lucchi dove si svolgerà la rassegna Aquae, autentica sede decentrata dell’Expo. In questo caso, quanto meno, uno sguardo al futuro è stato lanciato: finita l’esposizione, ospiterà le rassegne della Fiera di Venezia. Non solo: la speranza è che sia il primo passo per la riqualificazione del waterfront sulla laguna. Per il resto, siamo sempre alle dichiarazioni d’intenti: «Vorremmo che expoveneto» chiude Bettio «continuasse a crescere anche dopo la fine di ottobre e si trasformasse in un’agenzia per lo sviluppo». Parole grosse: un’agenzia per lo sviluppo presuppone un modello da seguire, sinergie tra i vari attori, politiche concrete per attrarre investimenti dall’estero. Meglio accontentarsi dell’assalto alla diligenza: coraggio ragazzi, portiamoli qui.
Noio volevà n savuar...l’indiriss...Proprio così: l’indagine Last (Laboratorio sulla società e il territorio) realizzata da Community Media Research, società di analisi guidata da Daniele Marini, professore di Sociologia all’Università di Padova, mostra una fotografia impietosa. Alla Totò e Peppino. O poco ci manca. Non finisce qui: in questo quadro di per sé sconfortante, il Nordest si staglia con i risultati peggiori in assoluto. I «sottoEXPOsti», come li definisce l’indagine, cioè coloro che non hanno mai sentito parlare dell’evento o che ne hanno una conoscenza profondamente errata, sono il 37,3 per cento, dato che sale al 43,7 per cento in Trentino Alto Adige, al 45 per cento in Veneto e al 47,5 per cento in Friuli Venezia Giulia. Per contro, gli «EXPOnenti», quanti hanno una conoscenza approfondita e corretta della kermesse milanese, risultano appena il 16,9 per cento, percentuale che scende al 14,3 per cento a Nordest. Se tanto mi dà tanto, nessuno stupore che gli italiani (con i nordestini ancora una volta a trainare il gruppo) siano quanto meno scettici quando il discorso cade sulle ricadute. Vale a dire su ciò che potrebbe restare quando il 31 ottobre nell’area di oltre un milione di metri quadrati in quel di Rho, verranno spente le luci. Gli «EXPObooh», chi non riesce proprio a capire se alla fine prevarranno gli effetti positivi o quelli negativi, arrivano al 43,8 per cento e salgono al 48,9 in Veneto, al 57,9 in Trentino Alto Adige, fino al 69,6 per cento in Friuli Venezia Giulia. Non si parli poi di Expo come opportunità per la creazione di nuovi posti di lavoro (lo spera il 41,9 per cento degli intervistati, che calano al 36,5 a Nordest). O addirittura come motore per il rilancio dell’intera economia (a crederci è non più del 35,8 per cento nella media nazionale e del 31,6 a Nordest). Conclusione: gli «EXPOfan», alla Renzi per intenderci, toccano a malapena il 25 per cento, e crollano al 23 per cento in Veneto, al 10,5 in Trentino Alto Adige, al 4,3 per cento (!) in Friuli Venezia Giulia.
Grido di battaglia: portiamoli qui. Ha voglia Aldo Bonomi, fondatore del Consorzio Aaster, il sociologo dei distretti, l’esperto al quale è stata affidata l’organizzazione della Mostra dei territori che animerà il Padiglione Italia, a sostenere che l’evento è destinato a riverberarsi sulle venti regioni da Nord a Sud, che non sarà una fiera come un’altra magari un po’ più grande, che considerati i 130 Paesi presenti e i 20 milioni di visitatori attesi, «non si potrebbe immaginare occasione migliore per creare le famose reti lunghe su cui volenti o nolenti si muove l’economia internazionale». Tutto vero, tutto giusto. D’altronde il tema, Nutrire il pianeta, energie per la vita, è centrale per la ridefinizione di un modello di sviluppo sostenibile. E, se non bastasse, ci sono l’importanza e il peso della nostra industria agroalimentare: 132 miliardi di fatturato, 58 mila imprese, 385 mila occupati, 34,3 miliardi di export (5 miliardi l’export dal solo Veneto). Peccato che tra le (buone) intenzioni e la realtà ci sia una distanza abissale. Saranno stati gli scandali e gli arresti eccellenti: Enrico Maltauro, giusto per fare un nome assai noto in Veneto. I ritardi: vedremo il 1° maggio quante parti saranno oggetto del famigerato camouflage. La lievitazione dei costi: il solo Padiglione Italia è passato dai 63 milioni previsti ai 92 effettivi. Fatto sta che l’Expo rimane per la maggior parte degli italiani, e in particolar modo per i giovani, che al contrario avrebbero dovuto essere quelli più sensibili all’argomento, una sorta di oggetto misterioso, lontano, da prendere con le pinze, o peggio di cui diffidare.
Il Nordest, come si vede dalle indagini, non fa eccezione. Anzi. Un conto sono i proclami: «Per la prima volta stiamo facendo squadra», «mai come in questa circostanza Lombardia e Veneto camminano insieme», eccetera eccetera. Altra cosa è crederci per davvero. E provare a cavalcare la straordinarietà dell’Expo con un’idea forte, un progetto preciso, un obiettivo chiaro. «La verità » sorride amaro Marini «è che si parla sempre di cabina di regia, ma la cabina di regia non c’è stata nemmeno questa volta. Ci si è mossi come al solito, in maniera spontaneista, sparpagliati alla meta. Il grido di battaglia è stato da subito uno solo: portiamoli qui. Se non tutti, almeno cinque, dieci milioni: il più possibile. Qualcosa si porterà a casa, ovvio: le occasioni di scambio non mancheranno, si potranno di sicuro aprire contatti produttivi e commerciali. Ma con queste premesse è difficile che l’Expo riesca ad avere un impatto sistemico sull’economia del territorio». La conclusione non può che essere pessimista. L’università Bocconi in un suo studio ha indicato ritorni per 25 miliardi dal 2015 al 2020 e la creazione di 199 mila nuovi posti di lavoro tra attività dirette e indotto? A Nordest arriveranno solamente le briciole.
La porta (pardon, il portale) dei desideri. Per carità , numerose imprese sparse lungo l’asse della Serenissima hanno avuto un ruolo di primo piano nella realizzazione delle strutture. Con tutte le conseguenze del caso, purtroppo. E anche nei sei mesi dell’apertura al pubblico il Nordest non rimarrà a guardare. Il Padiglione del Vino, un pezzo da Novanta all’interno dell’Expo, è stato affidato alle mani esperte e sicure dei veronesi di Vinitaly. La Illy di Trieste curerà il cluster del caffé. L’Orto botanico di Padova ricreerà il «parco della diversità ». Come dire: le eccellenze sono eccellenze. Ci sono, inoltre, le settimane dedicate alle singole regioni: il Veneto andrà in scena dal 2 all’8 ottobre in uno stand di 200 metri quadrati concepito sulla sagoma di una villa palladiana e incentrato sull’esaltazione della produzione agroalimentare.
Sul territorio, invece, il piatto forte è rappresentato dal portale www.expoveneto.it. Nato come iniziativa privata per volontà di Luigi Brugnaro, ex presidente di Confindustria Venezia e oggi candidato sindaco nella città lagunare, expoveneto ha ottenuto il riconoscimento ufficiale della manifestazione (a partire dal logo) e ha raccolto l’adesione delle associazioni di categoria, di Legacoop, dei sindacati. Su tutto, il patrocinio della Regione Veneto. Una vetrina tradotta in 27 lingue che vede protagoniste 1.500 aziende, con oltre 500 eventi proposti: itinerari, mostre, visite guidate e chi più ne ha più ne metta. «L’obiettivo» spiega Paolo Bettio, motore del comitato dopo l’addio di Brugnaro «è presentarsi al visitatore come unico interfaccia, in modo che possa programmare una trasferta in Veneto su misura, unendo magari l’utile di un percorso d’affari con il dilettevole di una gita a Venezia o a Verona».
Intento lodevole, non c’è dubbio. Senonché si scopre che nemmeno il portale expoveneto è riuscito a limitare i danni del fai-da-te. In ogni provincia, nella migliore delle ipotesi con il coordinamento della Camera di commercio, si moltiplicano ora dopo ora le offerte, spesso non si capisce rivolte a chi. Belluno prova a spingere le Dolomiti. Le terre del Soave propongono itinerari in bici. Senza contare le cantine aperte e le sagre paesane. Un trionfo di sigle, interessi particolari, campanili.
Insomma, il Nordest perde il pelo ma non il vizio. Lo sbandierato gioco di squadra è andato rapidamente a farsi benedire. E allora (ri)salta fuori la domanda delle domande: che cosa resterà di questo Expo? No, non i terreni e le strutture laggiù, alla periferia di Milano, su cui pure gravano incognite pesanti come macigni. Che cosa resterà qui, nella macroregione (di fatto) che va da Verona a Trieste?
Il lascito più importante, forse, potrebbe essere il padiglione realizzato a Porto Marghera dall’architetto Michele De Lucchi dove si svolgerà la rassegna Aquae, autentica sede decentrata dell’Expo. In questo caso, quanto meno, uno sguardo al futuro è stato lanciato: finita l’esposizione, ospiterà le rassegne della Fiera di Venezia. Non solo: la speranza è che sia il primo passo per la riqualificazione del waterfront sulla laguna. Per il resto, siamo sempre alle dichiarazioni d’intenti: «Vorremmo che expoveneto» chiude Bettio «continuasse a crescere anche dopo la fine di ottobre e si trasformasse in un’agenzia per lo sviluppo». Parole grosse: un’agenzia per lo sviluppo presuppone un modello da seguire, sinergie tra i vari attori, politiche concrete per attrarre investimenti dall’estero. Meglio accontentarsi dell’assalto alla diligenza: coraggio ragazzi, portiamoli qui.
di Sandro Mangiaterra da VeneziePost
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