Festival per una bella senz'anima
Mercoledi 2 Giugno 2010 alle 05:10 | 0 commenti
Tratto da VicenzaPiù n. 192 in edicola, in distribuzione nei punti qui indicati e scaricabile da questo sito
Il direttore artistico don Dario Vivian spiega le ragioni profonde del Festival Biblico
dal dialogo tra culture all'attualità del messaggio evangelico
in una città in cui la religione è sempre più di facciata
E sul Dal Molin dice: "Un'occasione persa"
di Luca Matteazzi
Docente alla facoltà di Teologia del Triveneto, direttore artistico del Festival Biblico, animatore di incontri che spaziano della lettura delle icone russe alle problematiche di coppia, don Dario Vivian (nella foto in un incontro di una delle scorse edizioni del Festival Biblico, n.d.r.) è uno dei volti più popolari e conosciuti della chiesa vicentina.
Ed ha seguito fin dalla prima edizione la manifestazione che proprio lo scorso fine settimana è tornata ad animare il centro di Vicenza con la sua sesta edizione e con un messaggio ormai consolidato: "Far capire che le Scritture non sono un libro da tenere chiuso negli spazi sacri, per gli addetti ai lavori, ma un libro che parla di noi, della nostra realtà - spiega Vivian -. Insomma, farne un qualcosa di vivo".
Al di là del luogo comune sulla città bianca e la sacrestia d'Italia, perché avete scelto proprio Vicenza per il Festival biblico?
"Dietro la scelta ci sono due idee di fondo. La prima è la percezione di una città che viene da un tradizione di un certo tipo, molto cattolica, ma dove questa tradizione rischiava di essere ormai più formale che reale. Invece c'è bisogno di una fede capace di dare conto di sé stessa, e questo lo si può fare ritornando ai fondamenti, cioè alle Scritture. Se non c'è la parola di Dio, abbiamo solo tante forme di devozione".
Quindi il Festival è anche una reazione ad un cattolicesimo ormai diventato di facciata?
"Certo. E uno degli obiettivi del Festival è proprio recuperare la dimensione fondante della parola di Dio. Poi, e questo è il secondo motivo, Vicenza si presta anche come città , per la bellezza delle sue vie e delle sue piazze. Ma, al di là della bellezza, il punto è capire se la Scritture hanno qualcosa da dire anche alla vita della città , all'economia, alla politica, alle relazioni sociali. Il rischio, e questo riguarda tutto il ricco Nordest, è che ci si trovi senz'anima: pensiamo solo alla questione dell'immigrazione, dove c'è il rischio di un atteggiamento di chiusura è evidente. Vicenza è una città bellissima solo per i palazzi o perché ha qualcosa dentro?"
Eventi come questo possono servire a rievangelizzare una città in cui calano i matrimoni in chiesa, la frequentazione della messa è sempre più bassa, i giovani rifiutano i precetti morali ecclesiastici?
"Il festival non è nato con l'intento di evangelizzare. Fin dall'inizio si è preferito che avesse un carattere più aperto e laico. Il Papa, recentemente, ha parlato del "cortile dei gentili", che era quel luogo del tempio di Gerusalemme in cui potevano entrare anche i non credenti. Il Festival vuole fare un po' questo, parlare delle scritture come codice culturale: perché, come dicevano il cardinal Martini e Bobbio, la grande differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti".
Ma Vicenza è ancora una città cattolica? In che misura?
"È oggettivo che il riferimento all'esperienza cristiana è in calo, mentre aumenta la dimensione del distacco e dell'indifferenza. Forse però questo fa parte di quel cammino di purificazione che il cristianesimo deve affrontare, nel momento in cui non è più religione di massa".
Meno cristiani ma più consapevoli, quindi?
"Sì, ma non in senso elitario, del pochi ma buoni. D'altra parte è vero anche che il popolo italiano continua ad affidare molto alla Chiesa, a partire dalla socializzazione primaria dei bambini. Il rischio, qui, è quello di sostituirsi al settore pubblico. Invece alcune realtà è giusto rivendicare che sia il pubblico a dare delle risposte: una delega in toto alla Chiesa è problematica".
Quest'anno il tema è l'ospitalità delle scritture. Tra gli incontri troviamo titoli come "Accogliere l'altro è accogliere in Signore", "Anche voi foste stranieri", "Stranieri sulla carta: informazione, immigrati, pregiudizi". La dimensione dell'impegno sociale non era mai stata così evidente, e i riferimenti all'attualità sono espliciti. Come mai?
"Fin dall'inizio c'era l'idea che le Scritture hanno una relazione con la dimensione sociale, proprio per evitare l'idea che certi discorsi devono restare fuori quando si parla di Bibbia; perché - si dice - altrimenti si parla di politica. In questo contesto generale, quest'anno abbiamo inserito una provocazione in più. Rispetto alla realtà che viviamo siamo di fronte ad una scelta: diventare una società accogliente o far prevalere la paura e la chiusura. Il Festival vuole dare il suo piccolo contributo".
Questo non è uno schierarsi anche nel campo cattolico?
"Io la porrei in modo diverso. Il fatto è che è troppo facile relegare il Vangelo a quella cosa che si ascolta in chiesa la domenica e poi non c'entra niente con la vita, perché la vita ha un'altra logica. La nostra provocazione è proprio questa: le Scritture sono solo belle parole, o sono qualcosa che interroga le scelte che facciamo e la società che costruiamo? Invece di schierarci, proviamo a interrogarci: come si concilia Gesù che dice di amare i propri nemici con certi atteggiamenti di chiusura?"
A questo proposito, i valori cristiani sono sempre più chiamati in causa anche nel dibattito pubblico, basti pensare alle discussioni sulla costituzione europea o alla polemica sul crocifisso. Quanto c'è di strumentale in queste rivendicazioni?
"Io credo che quando entriamo nel dibattito pubblico non si dovrebbe ragionare in termini di valori cristiani ma in termini di ricerca del bene comune. Altrimenti il rischio è quello di una società conflittuale al massimo, in cui ognuno cerca di affermare i propri valori. È la grande questione della laicità : io, da credente, so bene quali sono i miei valori. Ma quando ragiono nel dibattito pubblico devo pormi con un atteggiamento laico. Dire votatemi perché io difendo i valori cristiani è un'aberrazione: non si fa politica per i valori cristiani, si fa politica per il bene comune. Si deve cercare un punto di convergenza, anche se è faticoso. Anche questo è un aspetto presente nel Festival: le scritture sono un libro che non parlano un linguaggio religioso, ma laico. Si fa i conti con l'uomo".
Parlando di valori cristiani non c'è una mancanza anche da parte della Chiesa, che insiste molto su alcuni temi, ad esempio i temi etici, e molto meno su altri. Si interviene in modo molto chiaro sul testamento biologico, per fare un esempio, ma non si sentono parole altrettanto forti e chiare di condanna di una sistema economico basato sul profitto, in cui tutto è ridotto a calcolo e convenienza, e misurato col denaro. Quando invece è proprio questo a minare alla radici i valori cristiani tanto sbandierati, molto più della minaccia islamica, per dirne una.
"Su questo come Chiesa rischiamo di avere una miopia: ci si concentra su realtà limitate, e non si vede il contesto generale che plasma la cultura. È vero che a volte su certi temi non c'è una riflessione, e in questo pesa il fatto che la Chiesa sia anche un'istituzione, un potere accanto agli altri. Però è anche vero che troppo spesso si tende ad identificare la Chiesa solo con le sue voci istituzionali, quando invece la Chiesa è molto più ampia. E certi ragionamenti sono ben presenti al suo interno".
Vero. Ci sono don Adriano Sella, don Albino Bizzotto e via dicendo. Però quando si sale ai vertici certi messaggi non si sentono.
"Questo è il limite di una Chiesa come quella italiana, che è anche un potere politico molto forte. Magari altre chiese, più piccole, sono più libere e anche più autorevoli. Ma proprio in questo senso la scristianizzazione di cui si parlava prima potrebbe essere una purificazione".
Lei ha preso una posizione molto chiara contro il Dal Molin. Come giudica la linea del vescovo sul caso Dal Molin: non è stato troppo neutrale?
"Io ho sempre detto che per la Chiesa di Vicenza è stata un'occasione persa. Farsi provocare dalla questione Dal Molin, discuterne, era una grande occasione per provare a rendere concreto il Vangelo, che non si limita alle belle parole ma si incontra, e si scontra, con i fatti concreti. Non è che pretendessi che tutti, dal vescovo in giù, fossero schierati, ma che si affrontasse la questione sì. Invece è prevalsa l'idea che affrontarla volesse dire aumentare le divisioni: un po' come si fa a volte in certe case, dove in nome della pace familiare non si affrontano i problemi. Ma il non prendere posizione è scansare la questione dell'impatto del Vangelo".
Cosa direbbe a tutti quei cristiani che invece si sono schierati a favore della base?
"Io dico che, anche se c'è un principio di realismo politico di cui tenere conto, il nocciolo della questione è se quella è una base militare o no. Se è una base militare, va nella direzione dell'uso delle armi, della violenza, dello spreco di risorse. Come sia possibile dire di sì, mi piacerebbe che lo spiegassero a me.
È sempre il solito discorso: accettare la provocazione del Vangelo vuol dire anche mettere in discussione certe scelte, magari accettare una logica di sconfitta. Io ogni tanto dico che abbiamo ridotto il Vangelo a bello e impossibile: belle parole, sì, ma poi la vita va in un'altra direzione. Questo è svuotare il Vangelo, e la vicenda Dal Molin poteva interrogarci tutti, perché lì non puoi proprio girarci attorno. Del resto l'ha detto anche Gesù che le sue parole avrebbero diviso".
In questo caso, il vescovo è stato poco evangelico.
"Non devo certo io ad insegnare il mestiere al vescovo. Però sì, è prevalsa la paura di dividere, di lacerare la comunità . Invece è proprio quando affronti un problema che alla fine ti senti più forte, più famiglia".
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