Crisi: se va bene, sarà crescita recessiva
Venerdi 9 Settembre 2011 alle 19:54 | 0 commenti
 
				
		
		Di Enrico Galantini, da Rassegna.it
      
Intervista a Paolo Guerrieri. Se prendiamo i dati di quest'ultimo trimestre, non c'è ancora un paese nell'area più sviluppata che sia riuscito a ricostruire il livello di attività economica del 2007 (L'intervista uscirà sul supplemento economia in diffusione con il prossimo numero di Rassegna Sindacale)
Un'estate caldissima. Oltre che per effetto di giornate in cui spesso il termometro ha toccato i massimi da qualche anno a questa parte, per l'andamento delle borse, che si sono inabissate in un repentino meno 15/20 per cento che ha risvegliato gli incubi di marzo 2008, e per la situazione sempre più critica dei nostri titoli pubblici, sotto attacco da parte degli speculatori e sempre meno graditi agli investitori a tutti i livelli.
Di questo, di quello che è successo e delle prospettive dell'economia  mondiale, parliamo con Paolo Guerrieri, docente di economia alla  Sapienza di Roma e vicepresidente dell'Istituto affari internazionali. 
Quello  con il professor Guerrieri è ormai per noi, come i lettori del  supplemento economico di Rassegna sanno, un appuntamento ricorrente.  Anche questa volta cercheremo con lui di andare al di là della  contingenza quotidiana e della realtà un po' asfittica del nostro paese,  per cercare di inquadrare i fatti di oggi, e quelli probabili di  domani, in un contesto più ampio, globale, com'è ormai quello  dell'economia mondiale, sempre più interdipendente e sempre meno -  purtroppo - governato da una politica che sembra incapace di trovare il  bandolo della matassa e di adottare comportamenti coerenti.
 "Gli  andamenti estivi delle borse - esordisce il professor Guerrieri - vanno  letti assieme a tutta un'altra serie di dati (consumi, investimenti,  occupazione/disoccupazione) per vedere che vanno tutti nella stessa  direzione. quella di un netto peggioramento della congiuntura economica  internazionale e soprattutto americana". 
Allora la crisi non è affatto finita...
Se  prendiamo i dati di quest'ultimo trimestre, non c'è ancora un paese  nell'area più sviluppata che sia riuscito a ricostruire il livello di  attività economica del 2007: questa è una ripresa anomala, anche perché  la recessione è stata una recessione anomala. Perché era derivata non da  una manovra restrittiva ma da un accumulo di indebitamento (che ha  tenuto su l'economia per anni e che a un certo punto è esploso).  Indebitamento delle famiglie, delle imprese e (soprattutto) delle  banche. E adesso, negli ultimi due anni, degli Stati, proprio per il  tentativo che è stato fatto di rilanciare l'economia. 
La ripresa  recente è stata trainata soprattutto dalla politica economica: si è  pompata liquidità come mai era avvenuto, si è fatta una politica fiscale  espansiva, almeno negli Usa, in Cina e in alcuni paesi europei. Si era  parlato di una possibile staffetta: a un certo punto, i consumi e gli  investimenti privati avrebbero preso il posto della spesa pubblica  assicurando continuità alla ripresa. L'Ocse, a maggio di quest'anno,  diceva che i segni c'erano tutti. Era una pia illusione, quei segni non  c'erano e i dati di cui parlavamo all'inizio dimostrano che non ci  saranno almeno per un bel po'. 
La spesa privata non si è mai ripresa  veramente. I consumi americani, che negli ultimi vent'anni sono stati  il motore dell'economia mondiale, sono in stallo. Le famiglie americane  sono ancora oberate di debiti, l'occupazione resta a livelli  eccezionalmente bassi. È una classica crisi da domanda, visto che non  c'è adeguata domanda all'interno dei paesi e di riflesso non c'è domanda  nel circuito internazionale.
Ma come se ne esce?
 Il fatto è che  le politiche messe in atto sono state eccezionali per intensità ma  tradizionali nella loro natura. Si è sostenuta la domanda, e guai se non  lo si fosse fatto: gli effetti sarebbero stati disastrosi se non ci  fosse stato il puntello della domanda pubblica. Ma quel tipo  d'interventi presupponevano una recessione tradizionale. Non ci è resi  conto che eravamo di fronte a una situazione strutturale di eccesso di  debiti e quindi di vincolo alla ripresa della domanda. Quelle politiche  dovevano pertanto trovare strade nuove. Abbiamo usato la politica  macroeconomica, monetaria e fiscale in chiave di sostegno/rilancio e qui  è finito l'armamentario a disposizione. Il problema è che di fronte a  una crisi strutturale c'è oggi un'impotenza strutturale della politica. 
Basta investire in settori nuovi o serve qualcosa di più radicale?
  Immaginare che bastasse sostenere i consumi in America per far  ripartire l'economia era una pia illusione. In realtà si sapeva che  dietro il consumatore americano c'era un debito che lo schiacciava (e lo  schiaccia). Una strada nuova poteva essere quella di immaginare  interventi nel campo degli investimenti pubblici, o pubblici/privati, in  aree in grado di soddisfare bisogni anche a livello pubblico - ad  esempio le infrastrutture o l'energia o la banda ultralarga -,  investimenti che avrebbero avuto tra l'altro la possibilità di giovarsi  di tassi d'interesse bassissimi e in molti casi avrebbero potuto  autofinanziarsi con i ritorni generati dalle nuove capacità create. Si  era parlato della necessità cercare motori alternativi ma poi la  debolezza della politica - negli Usa con la rissa  repubblicani/democratici, in Europa con la cecità di paesi che  continuano a ostacolarsi a vicenda - lo ha reso impossibile. Una crisi  strutturale come questa non poteva venire curata da una politica  economica ultratradizionale. 
Serviva ben altro, insomma...
 E  servirebbe ancora. Si dice oggi che tutto è stato fatto, che tutte le  munizioni sono state sparate, che non ci sono più strumenti, che la  politica economica ha fatto quello che poteva fare, che la politica  fiscale è alle prese con l'austerità. È tutto vero. Ma è anche vero che  ci sono margini che potrebbero in maniera non tradizionale sostenere la  domanda e stimolare l'offerta all'interno dei paesi che possono  permetterselo (Germania e Stati Uniti ad esempio), e allo stesso tempo  sostenere una domanda che a livello internazionale dia tono a tutto  questo. 
Ma a guardare le varie situazioni non c'è molto da  aspettarsi. Basta pensare agli Usa che hanno un presidente azzoppato,  una situazione debitoria esagerata e un downgrading da parte di  un'agenzia di rating che è un fatto decisamente fuori dal comune...
Sì  il fatto è che i politici oggi sono più spettatori che attori. Negli  Stati Uniti la rissa è tale che i repubblicani sono pronti ad affossare  l'economia americana piuttosto che favorire il presidente nelle sue  chance di rielezione. I democratici da parte loro insistono nelle loro  rivendicazioni e Obama è debole. Adesso sta per lanciare una nuova  strategia, ma ne parla da troppo tempo senza che ci sia poi stata. Se  l'avesse fatto prima, magari sarebbe stata bocciato ma avrebbe offerto  una sponda a chi voleva cambiare davvero. Invece è rimasto sempre nel  mezzo. Così oggi, paradossalmente, sia da destra che da sinistra si  trova a essere il presidente più criticato dai tempi di Carter.
L'Europa  ha fatto forse qualche passo avanti nella consapevolezza della  necessità di una politica economica comune, ma sul fronte eurobond ci  sono veti assai precisi...
L'Europa (e la Germania in particolare)  sta pagando il prezzo di aver basato per anni la sua crescita sulle  esportazioni, grazie alla domanda mondiale che tenevano su i consumatori  americani. Arenatosi questo motore, ed essendo il motore dei paesi  emergenti (in primis la Cina) sì importante, ma oggi non in grado di  sostituire quello americano e occidentale, l'Europa non è attrezzata - e  non ha nessuna voglia di attrezzarsi - a gestire una crisi come questa.  Una crisi da domanda che chiederebbe all'Europa di far leva sull'enorme  potenziale costituito dal suo mercato interno, quei 500 milioni di  consumatori che non sa usare, perché li usa solo di rimbalzo una volta  che le esportazioni siano in grado di ripartire. 
A questo si  aggiunge il problema del debito. Un debito non complessivamente  drammatico. Il debito complessivo dell'Eurozona è inferiore a quello  americano, per non parlare di quello giapponese. Il problema è la  composizione di questo debito, il peso nelle singole nazioni rispetto  alla capacità di farvi fronte. L'Europa è entrata in crisi con la Grecia  all'inizio del 2010 e ha preso molte nuove misure. Il problema è che  queste misure hanno sempre seguito gli eventi, con ritardo e con poca  efficacia. Basti pensare alla decisione di rafforzare lo scorso luglio  il meccanismo cosiddetto "salva stati" (l'Efsf), che però non ha  rassicurato nessuno perché si è capito subito che le risorse di cui  avrebbe avuto bisogno, per svolgere le funzioni che gli erano state  attribuite, non sarebbero mai state messe a disposizione. Quelle di oggi  sono poco o niente. Occorrerebbe almeno triplicarle. 
Ma gli Eurobond si faranno secondo lei?
A  me sembra molto difficile che si possano fare vista la posizione oggi  del governo tedesco. In realtà non si stanno facendo nemmeno cose che  sono al di qua degli Eurobond. Perché questo fondo "salva stati"  potrebbe diventare una specie di fondo monetario europeo, e sarebbe già  una soluzione importante. Non sarebbe gli Eurobond ma sarebbe comunque  un fondo in grado di avere strumenti e risorse per poter soccorrere  paesi in difficoltà come l'Italia o la Spagna. Se non riusciamo nemmeno a  fare un fondo europeo perché la Germania e la Francia dicono no a  qualunque proposta di questo tipo, l'ipotesi degli Eurobond, che  presuppone un'integrazione ancora più forte e una messa in comune di  risorse e di strumenti, oggi è ancora meno percorribile. Il problema è  che rimaniamo dentro una visione di Europa in cui ciascuno deve badare a  se stesso...
Qual è la ragione profonda del no di Germania e Francia agli eurobond?
Il  fatto che questa scelta presuppone un'assunzione comune di  responsabilità verso una parte più o meno elevata dei debiti di ogni  paese. È una svolta politica di straordinaria rilevanza, perché io devo  dire ai miei cittadini, ai miei elettori, "voi pagherete le tasse anche  in funzione del fatto che abbiamo questo tipo di responsabilità". Gli  Eurobond non si possono realizzare con i mezzucci o le tecnicalità.  Quando avverrà, sarà un passaggio di grande rilevanza politica. Una  svolta. Dall'Europa dell'ognuno per sé, all'Europa di una coesione e di  una responsabilità collettiva. 
Questo passaggio Germania e Francia  oggi lo escludono perché s'illudono che ci sia ancora la possibilità di  rimettere le cose a posto lasciando tutto com'è, con gli Stati  indipendenti, con la moneta comune ma senza una politica economica  comune, e con regole ferree. È un'illusione perché così la crisi non si  fermerà, questo ormai è chiaro, e non so quando, se tra un mese, o in  qualunque periodo da qui al 2012, saremo in Europa davanti a un bivio  inevitabile: da un lato una disordinata ristrutturazione dell'area  dell'euro, con alcuni paesi che non ce la faranno, ma con una  prospettiva drammatica per tutti; dall'altro un passo fondamentale verso  una Europa più integrata. Quello sarà forse il momento in cui, di  fronte a uno scenario apocalittico sempre più concreto, questa decisione  degli Eurobond, che oggi non viene considerata matura, verrà accettata.
Bisogna insomma arrivare sull'orlo del baratro, con il rischio però che poi ci si caschi dentro...
Esatto.  E questo rischio sta diventando sempre maggiore. Stiamo alzando  l'asticella e stiamo aumentando sempre più il rischio che alla fine  crolli tutto e si arrivi a una ristrutturazione drammatica. 
E poi c'è anche la speculazione, guidata da banche assai importanti, contro l'euro...
  Quello della speculazione è un tema assai delicato. Certo è vero che  esiste chi lucra profitto da tutto questo. Ma quello che sta succedendo  non è certo opera solo di un manipolo di speculatori. In realtà ci sono  milioni e milioni di investitori che badano ai loro investimenti e, di  fronte a comportamenti quali quelli dei paesi europei, hanno possibilità  alternative sul dove tenere i loro risparmi e decidono di non comprare i  nostri titoli o decidono, se ce l'hanno, di venderli. Questo è  l'aspetto più preoccupante. Non sono le posizioni a brevissimo quelle  che hanno determinato a luglio la crisi dei nostri titoli e il balzo  dello spread a 400 punti. Sono stati grandi fondi, spesso istituzionali,  che hanno deciso di non investire su noi. Certo, c'è l'aspetto di  mercati finanziari che non funzionano, di regole che non sono mai state  riformulate e tanto meno applicate, di un'anarchia che li governa che  effettivamente è assai pericolosa. Ma se non mettiamo a posto i nostri  conti, è troppo facile prendersela con gli altri.
Abbiamo visto Usa ed Europa. E i paesi emergenti, a che punto sono?
I  paesi emergenti - e parliamo innanzitutto della Cina, dell'India e del  Brasile -sono una realtà importante. Con una crescita che da anni sta su  livelli da tre a quattro volte 
più grandi degli anemici tassi di  crescita dei paesi avanzati. Hanno superato brillantemente la recessione  del 2008-2009, con politiche che hanno consentito loro un relativo  sganciamento. È evidente come questi paesi stiano consolidando una loro  dimensione di attori nuovi. Ma il dato di fatto è che non sono ancora in  grado di sostituirsi al motore tradizionale dell'economia mondiale, e  cioè l'economia americana. Sono paesi che producono ed esportano molto,  ma che ancora non consumano e acquistano a sufficienza dal resto del  mondo. 
Si diceva che dovevano aumentare la loro capacità di domanda. L'hanno fatto?
  Molto lentamente, troppo lentamente per compensare la crescita  recessiva dei paesi avanzati. Le loro produzioni sono ancora dipendenti  dalla domanda dei paesi avanzati. Lo sganciamento e un loro ruolo  autonomo come motore della crescita è qualcosa che verrà, se riusciremo a  gestire la transizione e a mantenere coesa l'economia mondiale - cosa  che è tutta da vedere - ma oggi ancora non c'è.
Insomma la prospettiva a breve è una "sindrome giapponese"...
Oggi  lo scenario, al 50 per cento, è quello di una crescita recessiva, una  crescita che negli Usa può oscillare tra l'1 e l'1,5 per cento, in  Europa qualcosa di meno. Ma è un tipo di ripresa anemica - e questo è lo  scenario più favorevole - che non arresterà la disoccupazione (al  massimo l'arresterà ai livelli elevatissimi di oggi) ma soprattutto non  sarà in grado di ricostruire capacità produttiva e rilancio. Questo è lo  scenario non solo del prossimo anno ma di svariati anni, in cui  l'eccesso di debito da smaltire manterrà bassa la domanda privata - che  poi è il motore della crescita dei paesi avanzati -. Al meglio, insomma,  avremo la possibilità di evitare la recessione. 
Anche se l'Europa facesse il miracolo...
Dovrebbe  farne due. Da un lato mettere su basi nuove la crisi del debito, dando  stabilità all'euro. Dall'altro inventarsi un nuovo modello di crescita,  facendo leva sulle enormi potenzialità di cui dispone, avendo il mercato  interno più ricco del mondo. Se non si vogliono fare gli Eurobond per  gestire il debito sovrano, si potrebbe almeno pensare di utilizzarli per  progetti di investimento europei, nel futuro delle infrastrutture,  dell'energia, delle tecnologie europee. Questo potrebbe essere un modo  di pensare a un'Europa meno dipendente dalla domanda americana e  mondiale. Un grande protagonista dell'Europa come Tommaso Padoa Schioppa  aveva scritto che i paesi devono badare soprattutto al rigore delle  loro politiche ma la crescita deve provenire da un'Europa che investe su  se stessa. Esattamente l'opposto di quello che predicano ancora oggi  Germania e Francia, per cui ai paesi spettano rigore e crescita, mentre  all'Europa spetta il ruolo di guardiano. Come si vede la strada da fare è  ancora lunga.
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