Come cambia il clima di casa nostra
Domenica 6 Dicembre 2009 alle 08:10 | 0 commenti
Articolo pubblicato sul numero 174 di VicenzaPiù, in edicola a 1 euro e da oggi ancora più facile da trovare, grazie alla tiratura aumentata, nei punti di distribuzione in città .
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La processionaria del pino è una farfalla pelosa lunga 3-4 centimetri, che si può vedere svolazzare tra gli alberi al crepuscolo e che è tristemente nota a chi si occupa di insetti e di foreste. Le sue larve, infatti, oltre ad essere pericolosamente urticanti, sono insaziabili divoratrici di aghi di pino. Non a caso la processionaria, insieme ad altri insetti come il bostrico tipografo (un coleottero), è considerata uno dei principali nemici dei boschi delle nostre montagne ed è tenuta costantemente sotto osservazione. Anche perché, negli ultimi anni, ha allargato sempre più il proprio habitat, conquistando spazi in cui prima non si era mai vista. I motivi sono tanti. C‘entra, ad esempio, la riduzione dei predatori naturali. Ma c'entrano anche le estati sempre più calde e sempre più secche, che indeboliscono gli alberi e al tempo stesso permettono alle farfalle di volare più a lungo, aumentando il loro raggio d'azione e facilitando il proliferare delle famigerate larve. "Le elevate temperature delle notti estive nell'estate del 2003, anche a quote elevate, hanno consentito una più sostenuta attività di volo e l'occupazione rapida di nuovi territori e piante ospiti, quale il pino mugo", si legge in una ricerca pubblicata da Veneto Agricoltura. Se farfalle e coleotteri si diffondono, condannando a morte pini e abeti, insomma, c'entra anche il cambiamento climatico.
Di solito, quando si discute di effetto serra e riscaldamento globale, si pensa a fenomeni estremi quanto distanti: lo scioglimento delle banchise polari, i cicloni tropicali, le disastrose alluvioni del Sudest asiatico. Invece gli effetti di una realtà che la stragrande maggioranza della comunità scientifica dà ormai per altamente probabile, per non dire certa, (il clima si sta scaldando in modo anomalo, e la responsabilità è delle emissioni di gas serra da parte dell'uomo) si fanno sentire anche nella nostra regione. Magari non in modo eclatante, anche se l'estate torrida del 2003 è ancora un ricordo molto vivo, e se grandinate dicembrine come quella della settimana scorsa nell'Alto Vicentino hanno lasciato tutti di stucco. Magari con le sembianze di una farfalla che all'imbrunire fa capolino a quote in cui non ci si aspetterebbe di trovarla, e comincia a costruire i suoi nidi carichi di larve voraci su rami di pino che si ritenevano al sicuro. Ma ci sono; e senza essere catastrofisti, bisogna cominciare a farci i conti.
Più caldo...
Tra gli osservatori più attenti c'è l'Arpav, l'Agenzia regionale per l'ambiente, che ha una rete di monitoraggio del territorio capillare e ormai consolidata nel tempo. "Quello che stiamo notando qui in Veneto è una tendenza in linea con quello che avviene nel resto dell'Europa centrale, e in particolare delle Alpi", spiega Anselmo Cagnati, del Centro valanghe di Arabba. Tendenza che si può riassumere così: aumento delle temperature, soprattutto delle temperature massime, e riduzione delle precipitazioni invernali. Il confronto viene fatto, oggi come oggi, con il decennio compreso tra il 1961 e il 1990: rispetto ad allora, le temperature massime invernali sono cresciute di 1,4 gradi, e le massime estive addirittura di 1,9. Ben al di sopra degli 0,7 gradi di aumento di cui si discute a livello globale. "L'aumento è generale, e riguarda anche le temperature minime e le medie, ma i picchi più evidenti sono nelle massime - aggiunge Cagnati -. Ed è vero che da noi l'aumento è maggiore di quello registrato a livello globale, ma questo è normale. Quando si discute di fenomeno globali va da sé che ci sono aree in cui questi sono più evidenti e altre zone in cui lo sono di meno".
... e meno neve
Di pari passo con l'impennata delle colonnine di mercurio, le centraline Arpav hanno registrato una progressiva diminuzione delle precipitazioni, in particolare di quelle invernali. Il che si traduce, ovviamente, in una riduzione del manto nevoso: per quanto possa essere difficile crederlo avendo ancora negli occhi i paesi sepolti dalla neve dell'ultimo inverno, la verità è che nevica di meno, gli accumuli raggiungono livelli inferiori, e le montagne sono imbiancate per tempi sempre minori. "La permanenza delle neve al suolo è diminuita del 12 per cento - riprende Cagnati -. Più precisamente, è diminuita di circa il 15 per cento alle quote più basse, inferiori a 1800 metri, e di circa il 7 alle quote superiori. Negli ultimi vent'anni la quota della neve sicura, cioè l'altitudine in cui ci sono almeno 100 giorni di innevamento all'anno, si è alzata di circa 300 metri: era a 1200 metri, oggi è attorno ai 1500". E la cosa, come si può facilmente immaginare, ha conseguenze pesanti per molte stazioni sciistiche. Soprattutto per quelle delle nostre montagne, situate a quote medio basse, costrette sempre più spesso a salvarsi con l'innevamento artificiale.
Ghiacciai e punti di rottura
A voler essere pignoli, bisognerebbe precisare che il trentennio 1961-1990, usato come termine di paragone, è stato un periodo di nevicate particolarmente abbondanti. Tanto che il decennio a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80 è considerato il periodo più nevoso del secolo. Ma anche tenendo conto di questo, la tendenza alla diminuzione rimane. Lo si vede dal permafrost, il terreno perennemente gelato, che fino a cento anni fa si trovava a 2750 metri, e ora si scorge solo sopra i 2900. E lo si vede soprattutto dai ghiacciai, che dal 1910 al 2004 hanno perso quasi metà della loro estensione (il 44,7 per cento). Con un precipitare della situazione dal 1980 in poi: "una drammatica accelerazione della fase di ritiro dal 1980 al 2004, periodo in cui la superficie campione ha subito un decremento del 23.8% passando da 6.7 kmq a 5.1 kmq" si legge in un rapporto dell'Arpav". Come se ci fosse stato uno scalino, uno scarto, un'improvvisa accelerazione nel mutamento. Cosa che, in effetti, trova riscontro anche in altre osservazioni. "Sia per l'aumento delle temperature che per la diminuzione delle precipitazioni - conferma lo studioso del centro valanghe -, abbiamo individuato un punto di rottura molto evidente verso la fine degli anni '80".
Le piogge
Se si cerca qualche segno più concreto di questi cambiamenti, bisogna andarlo a cercare tra chi si occupa di gestione delle risorse idriche. Perché è lì che tutti i discorsi su pioggia, neve, ghiacciai e temperature vanno a finire. "Non ho mai condotto il nostro lavoro con l'ottica del cambiamento climatico - commenta Lorenzo Altissimo, direttore del centro idrico di Novoledo, l'ente che monitora livello e salute delle falde per conto degli acquedotti di Padova e Vicenza -. Ma negli ultimi anni mi è capitato spesso di ragionarci, e devo dire che le previsioni che si fanno a livello globale sono in linea con i dati che noi osserviamo. O per lo meno non sono in contraddizione". Ecco qualche esempio. Si dice che piove sempre di meno? Vero. La diminuzione media delle precipitazioni oscilla tra il 10 e il 15 per cento, anche in zone come l'Alto Vicentino, tradizionalmente tra le più bagnate di tutta la regione (il detto popolare "Recoaro, Valdagno, Schio, orinale di Dio", ha più di un fondo di verità ). Si dice che i fenomeni sono sempre più violenti? Vero anche questo, anche se su questo terreno ci si basa più su sensazione che su dati precisi. Il numero di giorni di pioggia però è diminuito, e questo significa che la pioggia è distribuita in modo meno uniforme; cioè che è sempre più facile trovare periodi di siccità abbastanza lunghi spezzati poi da violenti acquazzoni (oggi si arriva relativamente spesso a siccità di 80-90 giorni; negli anni '50 la media era di 50-60 giorni).
L'acqua che scompare
La cartina di tornasole, in questo caso, è il livello delle falde. Che negli ultimi decenni ha visto un calo generalizzato. In cinquant'anni il livello medio del pozzo di Dueville ha perso oltre un metro e mezzo, quello di Cartigliano addirittura 7 metri (da 72 è sceso a 65, ma nell'alta pianura le oscillazioni delle falde sono più ampie, e attorno al Brenta anche le cave di ghiaia hanno dato un contributo pesante al loro abbassamento), quello di Schiavon 4 metri (da 68,5 a 64,5).
E non è necessario andare a cercare l'acqua sotto terra per rendersi conto di cosa stia accadendo. Nel Polesine il bilancio idroclimatico, un indicatore che calcola il saldo tra le piogge e l'evaporazione (in soldoni, misura quanta acqua rimane nel terreno), è ormai costantemente in rosso. Il Basso Vicentino si sta avviando sulla stessa strada. Il Brenta, fiume che è alimentato anche dai ghiacciai delle Pale di San Martino e dalle nevi quasi perenni delle vette dei Lagorai, oggi ha una portata media mensile di circa 47 metri cubi al secondo. Solo cinquant'anni fa era di 80 metri cubi. Come dire che in mezzo secolo il fiume si è dimezzato. E anche qui, il fenomeno è diventato più veloce ed evidente negli ultimi vent'anni, di pari passo con lo scioglimento dei ghiacciai e con quel fatidico punto di rottura evidenziato dall'Arpav. Se a questo si aggiunge che negli ultimi dieci anni si sono viste le estate più calde (2003 e 2006) e l'inverno più nevoso (2008) da molto tempo a questa parte, c'è davvero da chiedersi coso ci aspetta dietro l'angolo.
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