Banca Popolare di Vicenza e i suicidi, Meletti su Il Fatto: la storia di un furto gigantesco
Venerdi 17 Giugno 2016 alle 10:53 | 0 commenti
Normalmente nessuno si suicida per questioni di denaro. Ma nella storia della Banca popolare di Vicenza di normale non c’è proprio niente. Perciò la storia di Antonio Bedin, che si è dato la morte disperato per i perduti sghei, va spiegata. Come sono riusciti pezzi interi della classe dirigente veneta e nazionale – banchieri, manager, sedicenti imprenditori, politici corrotti o stupidi, vigilanti della Consob e della Banca d’Italia – a mettere in mezzo 200 mila soci della Popolare di Vicenza e della Veneto Banca e sfilare dalle loro tasche oltre 11 miliardi di euro? Attenzione: il denaro non si distrugge, i 6,2 miliardi di capitale pagati dai 120 mila soci della Vicenza e i 5 pagati dagli 80 mila soci di Veneto Banca esistono ancora ma hanno cambiato tasche. Questa è la storia di un furto gigantesco.
Sgombriamo il campo dalle mitologie sui suicidi. In Italia ogni anno si tolgono la vita circa 4 mila persone. È un cifra fissa, un pi greco insondabile, uguale ogni anno. Nessuna evidenza statistica correla i suicidi al denaro. Erano 4 mila prima della grande crisi iniziata nel 2008 e 4 mila sono rimasti. Se ogni anno si suicida un italiano ogni 20 mila, c’è da essere soddisfatti se in Veneto registriamo solo oggi il primo caso tra i 200 mila soci totali delle due popolari venete. Sarebbe disonesto attribuire un significato pubblico alla tragedia personale di Antonio Bedin, come a quella di Luigino D’Angelo che si tolse la vita sei mesi fa a Civitavecchia dopo aver perso i suoi risparmi con Banca Etruria. Ma neppure si possono ignorare due interrogativi drammatici che queste storie portano alla ribalta.
Prima domanda: chi, come e perché ha consentito che un operaio in pensione investisse 400 mila euro in azioni della Vicenza? Stiamo parlando di una banca non quotata in Borsa. Il che significa due cose. Si tratta di un titolo illiquido, come dicono gli espertoni per non farsi capire: tu compri le azioni e quando vuoi rivenderle non c’è un mercato, e devi andare alla banca che te le ha vendute a chiederle se, per favore, se le riprende. A Vicenza è successo che molti, quando hanno provato a scappare, non ci sono riusciti.
La magistratura ci dirà , speriamo presto perché sanno già nomi e cognomi, quanti non sono riusciti a rivendere le proprie azioni perché la banca accontentava prima gli amici. Il secondo difetto di una banca non quotata in Borsa è che ha obblighi di trasparenza minimi.
Ne consegue la seconda drammatica domanda. Come è possibile che nessuno abbia avvertito soci e risparmiatori della Popolare di Vicenza che la banca stava andando a gambe all’aria? Perché non è stata commissariata in tempo, prima del disastro? Dov’erano, che cosa facevano, a che cosa pensavano gli ispettori della Banca d’Italia? Il Fatto ha documentato che già nel 2001, quindici anni fa, la Banca d’Italia sollevò con il padre-padrone Gianni Zonin il problema della fissazione del prezzo delle azioni. Non essendoci un mercato regolato – dove il prezzo lo fanno domanda e offerta – era Zonin, insieme ai suoi sodali del Cda, a decidere quanto valeva un’azione della Vicenza. Il prezzo saliva di anno in anno, fino ai 62,5 euro pagati dal povero Bedin. Quindici anni di impetuosa crescita del prezzo decisa a tavolino e nessuno ha fiatato.
Fino al gran finale, l’assemblea dell’11 aprile 2015 in cui Zonin comunica ai soci che tutto va bene. La perdita di 759 milioni del 2014? “Scelte prudenzialiâ€. Zonin era felice: “I risultati del primo trimestre segnano progressi di grande importanza e fanno presagire una chiusura 2015 all’insegna di buoni profittiâ€. Perché nessuna autorità pubblica ha fiatato? Sapevano tutto: era in corso l’ispezione della Bce, pochi giorni dopo l’assemblea hanno cacciato il direttore generale Samuele Sorato, ancora qualche settimana e hanno detto ai soci che c’era un buco da 1,5 miliardi da coprire con un aumento di capitale. E Zonin? Intoccabile? Peggio: il programma era di tenerlo lì per sfruttare il suo ascendente sui soci, li avrebbe convinti a scucire altri soldi. Poi è intervenuta la magistratura, e Zonin, offeso, si è dimesso. Dai 62,5 euro di un anno fa le azioni oggi valgono 10 centesimi. E nessuno fiata, come se questo immenso furto fosse solo un imprevedibile fenomeno meteorologico.
di Giorgio Meletti da Il Fatto QuotidianoAccedi per inserire un commento
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