Alcuni dati sull'occupazione: tutto merito del Jobs Act e tutta colpa del Jobs Act
Domenica 10 Gennaio 2016 alle 18:15 | 1 commenti
In questi ultimi giorni si sono lette sui giornali le dichiarazioni di Renzi e soci del governo che evidenziano i dati provvisori forniti dall'ISTAT sull'occupazione in Italia. "L'Italia riparte" affermano, i dati confermano inequivocabilmente la ripresa dell'occupazione. A novembre il tasso di disoccupazione cala all'11,3% (-0,2 rispetto a quello di ottobre), ci sono circa 48 mila disoccupati in meno e circa 36 mila occupati in più. Questi i dati positivi grazie ai quali Renzi può cinguettare entusiasta "la disoccupazione continua a scendere, oggi 11,3%, è dimostrazione che #jobsact funziona. L'Italia che riparte, riparte dal lavoro #lavoltabuona". E, così, si sente in grado di dare i numeri.
Letteralmente, perché si tacciono altre informazioni che si possono ottenere confrontando le tabelle ISTAT al di là della facile propaganda. Perché è solo propaganda attribuire al "jobs act" la crescita occupazionale di novembre. In novembre, ci spiegano, sono stimati 40 mila dipendenti permanenti in più rispetto a ottobre (dati destagionalizzati). Peccato che le stime dei dati da quando è entrato in vigore il decreto che prevede il lavoro stabile a tutele crescenti (inizio marzo 2015) mostrano come non ci sia stato un aumento apprezzabile del lavoro permanente. I lavoratori dipendenti permanenti passano dai circa 14 milioni 548 mila di febbraio ai circa 14 milioni 585 mila di novembre. Si devono anche tenere presente due cose. La prima è che nel maggio del 2015 i dipendenti permanenti erano stimati in 14 milioni 622 mila e sono calati a ottobre fino a 14 milioni 545 mila (praticamente gli stessi di prima dell'entrata in vigore del jobs act); la seconda è che la "crescita" di novembre potrebbe plausibilmente essere dovuta ai tagli delle decontribuzioni previste per il 2016 e alla conseguente accelerazione di fine anno per usufruire di quelle ancora in vigore per assunzioni ento il 31 deicembre 2015. Infine, nel periodo di attuazione delle tutele crescenti previste dal "jobs act" sono aumentati considerevolmente i lavoratori a termine (dai circa 2.283.000 di febbraio ai circa 2.432.000 di novembre).
L'entusiasmo di Renzi e soci per l'aumento del "lavoro stabile" (che, poi, non è tale vista la cancellazione di fatto dell'articolo 18 e le sedicenti "tutele crescenti" che non salvaguardano dal licenziamento) è quanto meno esagerato. I dati ISTAT mostrano al massimo una stabilizzazione della situazione a livelli di bassa occupazione in quanto gli inattivi si assestano su un 36,3% che è il dato più alto non solo dall'aprile del 2014, ma il peggiore a livello europeo. La crescita (anche se modesta) degli inattivi nell'ultimo quadrimestre è comunque costante. Questi dati, che dimostrano come la crescita che gli esponenti governativi ci dicono definitivamente avviata non sia tale, vengono poco evidenziati ma dimostrano come la questione occupazionale non possa essere affrontata se non con una politica industriale seria e non con qualche intervento di propaganda, qualche sgravio o la cancellazione dei diritti di chi vive del proprio lavoro.
Inoltre, leggendo i numeri ISTAT, restano comunque inevase alcune domande che un governo cosciente dovrebbe porsi. Qual è la qualità del lavoro oggi in Italia? Quanto incidono i posti di lavoro poco sicuri o sottopagati? A quali ricatti devono sottostare i lavoratori per non perdere il posto di lavoro o per farsi assumere? Perché ci sono milioni di cittadini non occupati che, pur volendo lavorare, non cercano lavoro perché sfiduciati?
Lo Stato dovrebbe intervenire con un piano per il lavoro che preveda cosa, quanto, dove e quando produrre; quali devono essere i settori strategici sui quali puntare; quanto investire in ricerca e innovazione; quanto si può lavorare per produrre quanto previsto. E, in base al piano per il lavoro, quali e quante riconversioni si devono attuare.
Lasciare la soluzione delle questioni del lavoro al "buoncuore" di imprenditori che hanno come obiettivo principalmente (o solo) il loro profitto personale è indice di una visione miope e di una politica divenuta un'appendice di quell'imprenditoria che ha pesanti responsabilità nell'aver creato la crisi.
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