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Una cintura di sicurezza per le Popolari, costo 5 miliardi
Lunedi 13 Luglio 2015 alle 10:37 | 0 commenti
C’ è un costo implicito e non pienamente considerato che le vecchie proprietà (di diritto o di fatto) delle banche popolari italiane dovranno considerare nell’operazione di trasformazione sociale imposta dal governo Renzi. Ed è un costo rilevante, stimabile tra 4,4 e 5,3 miliardi di euro, direttamente riferibile al legame territoriale che questi istituti, su basi diverse, hanno conservato nel corso degli anni, ammesso che vogliano mantenere questo tipo di connessione.
Il tempo stringe, perché, con l’agosto di mezzo, la seconda metà dell’anno dovrebbe essere caratterizzata da una serie di assemblee straordinarie che sanciranno la trasformazione in Spa. La lista delle prime a intraprendere il percorso di cambiamento è oggi composta da Ubi, Banca Popolare di Milano, Veneto Banca e Popolare di Vicenza (le ultime due ancora non quotate), mentre si hanno riscontri più tiepidi dalla Popolare dell’Emilia-Romagna, dal Credito Valtellinese, dalla Popolare di Sondrio e dal Banco Popolare.
Via Nazionale
Sulle operazioni di trasformazione sociale e sugli statuti che reggeranno le nuove società ha già acceso un faro l’autorità di Vigilanza. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, la scorsa settimana in occasione dell’assemblea dell’Abi, ha evidenziato che «nell’esercizio dei poteri di autorizzazione attribuiti dalla legge, la Banca d’Italia verificherà che le operazioni societarie proposte dagli intermediari non abbiano l’effetto di perpetuare, sotto diverse spoglie, le configurazioni proprietarie e gestionali che il legislatore ha inteso rimuovere». Nessun gioco delle tre tavolette, dunque, ma trasparenti operazioni di mercato, nel rispetto della legge e delle determinazioni dell’Unione bancaria europea.
Ed è proprio alla ricerca di un coagulo forte, non legato a patti di sindacato ma a stabili operazioni di investimento azionario, che si stanno muovendo in queste ore molti presidenti delle popolari.
Però, in un momento di generale difficoltà del sistema e di profonda rivoluzione del business , non è facile convincere neppure la parte più sensibile del mondo imprenditoriale locale a mettere mano al portafoglio. Anche perché il conto potrebbe essere in alcuni casi impegnativo. Con la soglia dell’opa obbligatoria scesa circa un anno fa al 25 per cento del capitale sociale, raggruppare investitori disponibili a garantire una fetta consistente di titoli – diciamo compresa tra il 20 e il 24 per cento – potrebbe costare, ai depressi prezzi di lunedì scorso, tra 1,24 e 1,48 miliardi di euro in casa Ubi, in questo momento la più capitalizzata tra le banche in via di trasformazione. Una cifra considerevole, anche considerando che Ubi parte in qualche modo lanciata, visto che la componente bresciana della banca già in passato agglomerava attorno ad alcune famiglie imprenditoriali circa il 12-14 per cento del capitale della (allora) spa. Se la situazione fosse confermata dopo anni, si tratterebbe sostanzialmente di raddoppiare la cifra. Ma nel complesso, per Andrea Moltrasio, presidente del consiglio di gestione si tratterebbe di trovare 14 investitori da 100 milioni l’uno, o 28 da cinquanta milioni, o 140 investitori da 10 milioni…
Situazioni simili, ma con altri importi da raggiungere ( vedi tabella ), riguardano tutte le banche interessate dai progetti di trasformazione, per un totale di circa 5 miliardi di euro. Per ora le mosse sono sottotraccia, nulla di strategico. Come, peraltro, sta avvenendo al Banco Popolare, l’altro grande gruppo bancario interessato dal provvedimento di legge. A Verona, dove il tessuto imprenditoriale è molto vivace, dai Veronesi (due: Calzedonia e mangimi), ai Bauli e ai Rana re dell’alimentare, per ora si muove solo Paolo Biasi, signore della Fondazione Cariverona il cui ventennale mandato scade fra poco. È Biasi che si pone come investitore potenziale nel Banco: esce sì dalla banca conferitaria (Unicredit), ma investirebbe nello stesso settore. Può considerarsi differenziazione del rischio?
Nell’Arena
Nel frattempo, è in corso la complessa vicenda che, mutando lo statuto, porterà nei primi giorni dell’anno prossimo a nominare il nuovo presidente. La bozza di statuto sottoposta al ministero è tornata al mittente con la richiesta di una serie di integrazioni. Queste andranno recepite dal consiglio generale in una nuova formulazione del testo che, dopo i visti di rito, verrà probabilmente approvato in via definitiva a dicembre, quando si formerà il nuovo consiglio generale e il nuovo consiglio di amministrazione che, probabilmente a gennaio, eleggerà il nuovo presidente. Al momento, due i candidati forti Giovanni Sala, oggi vicepresidente vicario e Giovanni Maccagnani, il primo gradito a Biasi, il secondo al sindaco Tosi. Sembra, ma a sei mesi dall’arrivo, che una mediazione possibile sia nella presidenza a Sala e nella vicepresidenza a Maccagnani. Intanto, si susseguono le voci di mercato che vorrebbero il Banco nelle vesti di cavaliere bianco del credito nordestino, con un’operazione che comprenderebbe la fusione con Popolare Vicenza e Veneto Banca. Un’ipotesi suggestiva ma del tutto svincolata dai tempi e dal mercato: solo Ubi e Bpm appaiono partner che hanno un senso industriale nel futuro del Banco, almeno in un’ottica di creazione di valore.
Via Nazionale
Sulle operazioni di trasformazione sociale e sugli statuti che reggeranno le nuove società ha già acceso un faro l’autorità di Vigilanza. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, la scorsa settimana in occasione dell’assemblea dell’Abi, ha evidenziato che «nell’esercizio dei poteri di autorizzazione attribuiti dalla legge, la Banca d’Italia verificherà che le operazioni societarie proposte dagli intermediari non abbiano l’effetto di perpetuare, sotto diverse spoglie, le configurazioni proprietarie e gestionali che il legislatore ha inteso rimuovere». Nessun gioco delle tre tavolette, dunque, ma trasparenti operazioni di mercato, nel rispetto della legge e delle determinazioni dell’Unione bancaria europea.
Ed è proprio alla ricerca di un coagulo forte, non legato a patti di sindacato ma a stabili operazioni di investimento azionario, che si stanno muovendo in queste ore molti presidenti delle popolari.
Però, in un momento di generale difficoltà del sistema e di profonda rivoluzione del business , non è facile convincere neppure la parte più sensibile del mondo imprenditoriale locale a mettere mano al portafoglio. Anche perché il conto potrebbe essere in alcuni casi impegnativo. Con la soglia dell’opa obbligatoria scesa circa un anno fa al 25 per cento del capitale sociale, raggruppare investitori disponibili a garantire una fetta consistente di titoli – diciamo compresa tra il 20 e il 24 per cento – potrebbe costare, ai depressi prezzi di lunedì scorso, tra 1,24 e 1,48 miliardi di euro in casa Ubi, in questo momento la più capitalizzata tra le banche in via di trasformazione. Una cifra considerevole, anche considerando che Ubi parte in qualche modo lanciata, visto che la componente bresciana della banca già in passato agglomerava attorno ad alcune famiglie imprenditoriali circa il 12-14 per cento del capitale della (allora) spa. Se la situazione fosse confermata dopo anni, si tratterebbe sostanzialmente di raddoppiare la cifra. Ma nel complesso, per Andrea Moltrasio, presidente del consiglio di gestione si tratterebbe di trovare 14 investitori da 100 milioni l’uno, o 28 da cinquanta milioni, o 140 investitori da 10 milioni…
Situazioni simili, ma con altri importi da raggiungere ( vedi tabella ), riguardano tutte le banche interessate dai progetti di trasformazione, per un totale di circa 5 miliardi di euro. Per ora le mosse sono sottotraccia, nulla di strategico. Come, peraltro, sta avvenendo al Banco Popolare, l’altro grande gruppo bancario interessato dal provvedimento di legge. A Verona, dove il tessuto imprenditoriale è molto vivace, dai Veronesi (due: Calzedonia e mangimi), ai Bauli e ai Rana re dell’alimentare, per ora si muove solo Paolo Biasi, signore della Fondazione Cariverona il cui ventennale mandato scade fra poco. È Biasi che si pone come investitore potenziale nel Banco: esce sì dalla banca conferitaria (Unicredit), ma investirebbe nello stesso settore. Può considerarsi differenziazione del rischio?
Nell’Arena
Nel frattempo, è in corso la complessa vicenda che, mutando lo statuto, porterà nei primi giorni dell’anno prossimo a nominare il nuovo presidente. La bozza di statuto sottoposta al ministero è tornata al mittente con la richiesta di una serie di integrazioni. Queste andranno recepite dal consiglio generale in una nuova formulazione del testo che, dopo i visti di rito, verrà probabilmente approvato in via definitiva a dicembre, quando si formerà il nuovo consiglio generale e il nuovo consiglio di amministrazione che, probabilmente a gennaio, eleggerà il nuovo presidente. Al momento, due i candidati forti Giovanni Sala, oggi vicepresidente vicario e Giovanni Maccagnani, il primo gradito a Biasi, il secondo al sindaco Tosi. Sembra, ma a sei mesi dall’arrivo, che una mediazione possibile sia nella presidenza a Sala e nella vicepresidenza a Maccagnani. Intanto, si susseguono le voci di mercato che vorrebbero il Banco nelle vesti di cavaliere bianco del credito nordestino, con un’operazione che comprenderebbe la fusione con Popolare Vicenza e Veneto Banca. Un’ipotesi suggestiva ma del tutto svincolata dai tempi e dal mercato: solo Ubi e Bpm appaiono partner che hanno un senso industriale nel futuro del Banco, almeno in un’ottica di creazione di valore.
di Stefano Righi dal Corriere Economia
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