Un palestinese a Vicenza: noi bombardati dai razzi, gli israeliani da bugie
Lunedi 14 Luglio 2014 alle 14:33 | 0 commenti
 
				
		Le origini di Dian, kebabbaro oramai vicentino, una volta entrati nel suo locale in Corso San Felice si palesano immediatamente: tra le tante immagini di panini e patatine fritte, a primeggiare su tutte c'è quella di Arafat. "Luce dell'alba", questo significa il suo nome in lingua araba e le prime luci che accolgono la venuta al mondo di Dian, trentacinque anni fa, sono quelle del campo profughi di Askar, periferia di Nablus.
La famiglia rimane laggiù mentre lui (vedi il nsotro video, ndr) segue la strada del fratello maggiore e dieci anni fa approda in Italia. Prima incastonatore orafo poi "autore" di kebab, che è vero che con la tradizione palestinese nulla hanno a che fare, ma è altrettanto vero che con i falafel si sposano benissimo. L'insegna recita "Al-Quds", modo in cui gli arabi chiamano la città di Gerusalemme, e se si vuol tentare di capire la situazione mediorientale da una prospettiva diversa dal solito, il posto è uno di quelli giusti.
   
Dian, come segui la situazione del tuo Paese?
La  mia tv, anche quando lavoro, è sempre sintonizzata su Al-Jazeera. Mi  informo quotidianamente su internet, ma soprattutto, quando le reti  telefoniche lo permettono, parlo al cellulare con i miei familiari.
La famiglia appunto
Ha  sempre vissuto nella Striscia di Gaza, ancor prima dell'occupazione  israeliana. Ho alcuni cugini che sono stati feriti, uno è anche morto.  Di tutto ciò che sta succedendo nel mio Paese nessuno sa esattamente  come vanno le cose, i giornali non ne parlano. Oppure si occupano di  aspetti marginali.
Fammi un esempio
Viene preso a pretesto l'episodio dei tre ragazzi israeliani rapiti, quando invece sono molti di più i palestinesi che perdono la vita, anche in questo momento, per le politiche dello Stato di Israele. Si parla tanto del lancio di razzi da parte di Hamas, senza spiegare che sono sostanzialmente innocui, soprattutto se paragonati alle armi che vengono impiegate da Israele nei loro raid.
È vero che i militari avvertono via telefono prima di bombardare una casa? 
Può  succedere che la famiglia riceva una chiamata che gli dice che stanno  per essere bombardati. Hanno al massimo tre minuti per andarsene ed il  problema vero è che non sempre viene indicata la precisa abitazione,  bensì una zona approssimativa. Spesso a ricevere la chiamata non è  nemmeno l'abitante della casa che sta per diventare un bersaglio.
Cosa vorresti venisse detto con più chiarezza su questo conflitto sanguinoso?
Tutti  devono sapere che in poco tempo ci sono stati 170 morti. Di questi  moltissimi sono donne e bambini, con relative famiglie distrutte dal  dolore. Un massacro che non ha senso.
Cosa vorresti dire ad un ragazzo israeliano?
Ci  tengo a precisare che non esiste alcun conflitto tra palestinesi e  israeliani. Tantomeno tra arabi ed ebrei. Il vero problema è il governo  israeliano e le sue politiche di sopraffazione sulla popolazione  palestinese. Molti israeliani non sanno nulla di ciò che realmente  succede dalle nostre parti, bombardati a loro volta da una serie di  bugie ed informazioni parziali manipolate appositamente dalla loro  amministrazione. Ho molti amici ebrei ed israeliani, coi quali ho sempre  convissuto fin da bambino, e loro stessi mi ripetono quanto siano in  disaccordo coi loro governanti, ma che semplicemente non possono farci  nulla. 
Quali sono, secondo te, gli ostacoli che non permettono di arrivare all'agognata pace?
Tre  anni fa sono stati scoperti importanti giacimenti di gas a Gaza. Le  manie di grandezza di Israele sono solo una parte della spiegazione, ci  sono sempre stati importanti interessi economici in ballo. L'acqua, ad  esempio, rappresenta uno dei fattori determinanti. Nablus, zona occupata  dalla quale provengo, ha importanti riserve d'acqua dolce nel  sottosuolo. Il consumo medio per un palestinese è di un litro  giornaliero, quello di un israeliano è di 39 litri.
Cosa potrebbe fare la comunità internazionale che finora non ha fatto?
Fino  a che ci sarà l'appoggio degli Stati Uniti non cambierà un bel niente,  Israele si sentirà sempre le spalle coperte. E sono molti i Paesi arabi  che per ragioni economiche girano la testa da un'altra parte. Fingono di  non vedere la situazione in cui ci troviamo. Le popolazioni arabe sono  con noi, il problema, come al solito, sono i governi.
Com'è crescere a Gaza? Cosa ricordi della tua infanzia?
Cresci  con la rabbia per l'ingiustizia che ogni giorno continui a subire. Ho  fatto e vissuto le stesse esperienze dei ragazzini che ogni tanto vedete  al telegiornale. Quelli che vengono arrestati, se non uccisi,  dall'esercito israeliano. Anch'io tiravo sassi contro i militari, anche a  me hanno sparato e anch'io ho visto morire al mio fianco amici che,  come me, avevano dieci anni.
Sei mai stato ferito?
Si, due  volte. La prima, da bambino, sono stato portato all'ospedale e operato  d'urgenza. La seconda volta mi trovavo a casa, a guardare la  televisione. Sento una delle tante raffiche dell'esercito, un proiettile  entra dalla finestra, rimbalza sul muro e va a conficcarsi poco lontano  dal mio cuore. C'era il coprifuoco e uscire di casa, per qualunque  motivo, significava diventare il bersaglio di altre raffiche. Quindi se  la ferita è messa così (si toglie la maglietta e mi fa vedere una grande  cicatrice irregolare, ndr) è perchè all'ospedale non ho potuto andarci.  L'unica fortuna è stata che mio zio è medico, e mi ha operato in casa  come meglio poteva, salvandomi.
Sei mai stato in  prigione?
Certo,  6 mesi di prigione. Da ragazzino, sempre per aver affrontato i militari  israeliani. Un'esperienza durissima a cui avrei potuto mettere fine  pagando 5.000 shekel, equivalente di più di mille euro che a Gaza  equivalgono a una piccola fortuna e che io ovviamente non avevo.
Chiedo più volte a Dian cosa direbbe, se ne avesse la possibilità , a chi invece condivide la politica di Israele. Non sa rispondere, dice che di persone che appoggiano queste azioni non ne conosce praticamente nessuna, nemmeno tra gli israeliani. Dian è pacato, riflessivo e nelle sue parole c'è tutto fuorché la furia del fanatismo di cui tanto si sente parlare. Non c'è rabbia nelle sue parole, bensì una triste rassegnazione e la preoccupazione costante per la gente che non ha avuto la sua stessa fortuna. Mi ripete che ci tiene a far sapere quello che stanno passando i bambini che si trovano a Gaza. Tira fuori lo smartphone e mi mostra una foto che di recente gli ha mandato un connazionale: una bambina di tre anni, su di un tavolo operatorio, unica sopravvissuta al bombardamento che ha colpito la famiglia. La piccola è in condizioni pietose, un arto amputato e troppi squarci sul corpicino per poterla considerare definitivamente fuori pericolo. Dice che sono quelle le immagini che andrebbero pubblicate, forse la gente capirebbe di più. Solo uscendo capisco meglio l'esortazione di Dian. A fianco a quella di Arafat ci sono moltissime altre foto che non avevo notato, tutte con una bellissima bimba bionda e sorridente. È la figlia di Dian, anche lei, in questo momento, sotto il cielo infuocato del Medio Oriente.
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