Storie di ordinaria disperazione
Mercoledi 7 Dicembre 2011 alle 09:05 | 0 commenti
Un profugo del Mali e uno del Ghana si raccontano
Sembrano storie di un altro mondo, parlano di fame, siccità , sacrifici e guerra. Ma loro, i protagonisti, quelli che le hanno vissute sulla loro pelle, abitano in città . Sono i racconti di due giovani profughi fuggiti dalla Libia e trasferiti a Vicenza nel piano di accoglienza messo a punto dal Comune. Storie che comprendono villaggi, tradizioni tribali, ma anche volontà di riscatto, desiderio di un’altra vita, viaggi di speranza. Quelli che li hanno portati a Vicenza dal cuore dell’Africa, da dove sono fuggiti, sei mesi fa, per avere un’altra chance. Giovani, come la maggior parte di coloro che hanno raggiunto le coste italiane.
Profughi, costretti dalle bombe a scappare dalla Libia e intraprendere un viaggio senza meta, che li ha portati in Italia. Fuggiti da quel Paese a migliaia, ora una piccola parte di loro abita il capoluogo: sono 60 i migranti provenienti dalla Libia e ospitati in città , circa 275 quelli accolti in tutta la provincia. Ed è qui, adesso, che la storia della loro vita deve passare per il colino della burocrazia, superare i paletti internazionali per il riconoscimento dello status di rifugiato che compete alle commissioni di Governo. Sarebbe il loro lasciapassare per una nuova vita: tutti ci aspirano ma pochi lo ottengono. Perché per molti di loro non bastano i sacrifici, la siccità , la fuga da un Paese in guerra, per ottenere quel documento. Come per questi due ventenni, che consegnano le loro storie in questa pagina, nella speranza di trovare una risposta al punto di domanda che aleggia sul loro futuro.
Mi chiamo B.D., ho 19 anni e sono nato in Mali. Sono andato a scuola per otto anni nel mio villaggio. Mio padre è morto quando io avevo poco più di un mese, mia madre quando avevo l’età di due anni. Sono cresciuto con mio zio, il fratello più piccolo di mio padre, che vive tuttora nel mio villaggio. Lì, però, c’è un grande feticcio: ogni trent’anni viene sacrificata una persona di una delle famiglie che vi abitano. Sono i vecchi del villaggio a scegliere la famiglia, che poi a sua volta decide la persona da sacrificare. Nel 2008 la famiglia di mio zio è stata scelta e poi lui ha deciso che quella persona sarei stata io. Un amico di mio padre, però, mi avvertii di quanto stava per succedermi, consigliandomi di lasciare il villaggi e dandomi alcuni soldi per fuggire. Così ho fatto. Avevo il passaporto, quindi mi sono diretto in Algeria: era un Paese vicino e non si pagava molto alla frontiera. Ma ero in possesso di un visto valido per soli tre mesi e così, quando è scaduto e ho chiesto di poterlo rinnovare, non me l’hanno accettato. Me l’hanno ritirato, costringendomi a lasciare il lavoro che avevo trovato come giardiniere in una casa. Poco dopo mi sono trasferito in Libia, perché sapevo che là avrei trovato lavoro. Sono arrivato a Tripoli il 17 novembre di tre anni fa e per un mese ho lavorato a giornata. Poi ho trovato un impiego in una fabbrica dove si imbottigliava l’acqua e, grazie a quel lavoro sono potuto rimanere in Libia, a vivere, fino al giorno della mia partenza per l’Italia.
Poi, quando sono cominciati i bombardamenti, tutto è cambiato: non si poteva più uscire. La fabbrica era vicina a un campo militare e noi operai vivevamo rinchiusi nelle nostre stanze, sentivamo le bombe cadere lì vicino e avevamo paura. Così, con un mio amico ho deciso di partire. Siamo andati al porto e abbiamo trovato un poliziotto, che per farci lasciare la Libia ha chiesto 750 dinari a testa. L’abbiamo pagato e il 12 maggio siamo saliti a bordo di una barca. Partiti, senza una meta, siamo arrivati il giorno dopo, in Italia.
Mi chiamo D.T, ho 27 anni e sono nato in Ghana. Per dieci anni ho frequentato la scuola nel mio Paese. Mio padre è morto di malattia pochi anni fa: aveva due mogli e una è mia madre, che vive nella mia città ma causa di un incidente è invalida e non riesce più a camminare. Ho iniziato a lavorare nella mia città natale, in un’impresa che costruiva strade: ero l’addetto alle manovre con la ruspa. Ma dopo l’incidente in cui mia madre è rimasta invalida, ho deciso di lasciare il mio lavoro, per riaccompagnarla nel villaggio in cui era nata. Lì ho deciso di iniziare la coltivazione del mais nel campo di famiglia, investendo in questo lavoro tutti i miei risparmi. Solo che la siccità di quell’anno ha bruciato tutti i semi, facendomi perdere tutti i soldi investiti e i guadagni attesi. Per questo, la mia famiglia mi ha aiutato, dandomi un po’ di soldi, con i quali lasciare il Paese e cercare fortuna in Libia. Sono partito tre anni fa, assieme al mio fratellastro, figlio dell’altra moglie di mio padre. Insieme abbiamo viaggiato verso la Libia attraversando prima il Burkina Faso e poi il Niger, dove siamo rimasti per tre mesi: il tempo necessario per mettere da parte un po’ di soldi e continuare il viaggio fino in Libia. Siamo arrivati a Tripoli, qualche mese dopo, e abbiamo trovato subito lavoro come muratori in un’impresa locale, che poi ci ha mandato a lavorare a Misurata. Ma un giorno, mio fratello è tornato a casa dal lavoro che stava molto male e mi ha confidato di essere stato picchiato per strada. Allora ho chiamato il proprietario della casa dove abitavamo, che era libico, e gli ho chiesto di accompagnare mio fratello in ospedale. Io non avrei potuto andare perché era pericoloso muoversi in strada per i cittadini di colore. Dopo due giorni, però, mio fratello è morto. E io non so dove sia stato sepolto. In quel periodo, inoltre, il proprietario della casa ha cominciato a dire che noi muratori non potevamo più stare lì, che ce ne dovevamo andare, e così ogni giorno che passava. Finché, una mattina, è entrato in casa, mi ha preso assieme ad altre persone e mi ha caricato in macchina. Ci ha portati al porto e ci ha detto di partire, perché la vita in Libia era diventata troppo pericolosa per noi. Solo che noi non sapevamo dove andare. Siamo saliti su una barca, una di quelle che erano al porto e che è partita di notte. Non sapevamo dov’era diretta.
Sono arrivato a Lampedusa lo scorso 13 maggio.
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