Ri-squalificazione berica
Domenica 16 Dicembre 2012 alle 13:43 | 0 commenti
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di Guido Zentile
Conosco Vicenza da quando, un ottobre di 54 anni fa, sono venuto al mondo. Ho abitato per quasi vent'anni nella zona est della città , nel quartiere di San Pio X, ritmo interrotto, durante la prima età scolare, da un cambio di residenza nel medesimo crogiolo di vie.
La mia famiglia, compreso naturalmente il sottoscritto, si trasferì da una vissuta e caratteristica abitazione in via Nicolò Vicentino, ad una nuova, anonima, palazzina in via Basilio dalla Scola, al civico 30. Eravamo nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso, in pieno fermento politico, sociale, e naturalmente urbanistico.Â
Inizia il periodo della crescita disordinata e incontrollata delle nostre città , momenti che già all'epoca davano i primi segnali di allarme e squilibrio, dal film denuncia "Le mani sulla città " di Francesco Rosi, che uscì nel 1963, al crollo, reale, causato dalla frana di Agrigento del 1966. Naturalmente ero un ragazzo svogliato e a otto anni, o giù di lì, non mi interessavo dei fatti che movimentavano il nostro Paese e la città di Vicenza; un minimo di sensibilità su ciò che stava accadendo attorno alla mia abitazione però c'era. A quel tempo oltre la palazzina dove risiedevo ce n'era subito un'altra, poi la strada finiva ed iniziava la campagna, campagna che si estendeva fino alla ferrovia Vicenza-Treviso, da un lato, alla strada di Bertesina, e alla recinzione della caserma Ederle, dagli altri lati. Nel mezzo della campagna due abitazioni rurali facevano da nucleo ai fondi di pertinenza. Ho visto, così, nel proseguire degli anni ingrandirsi la città , ridursi sempre più il territorio agricolo; a fianco dell'ormai storico quartiere di San Pio X ne è sorto un altro, strade, scuole, e case su case. Nell'arco di vent'anni un pezzo di Vicenza, come altri (vedi la zona ovest - San Lazzaro) ha assunto un nuovo volto, un apparente velo di modernità , che nello stesso tempo ha generato dei vuoti urbani, e, complice una politica locale e nazionale, non ha saputo rispondere ai mutamenti delle pratiche sociali. Oggi la nostra città è in conflitto con impoverimento e degrado.
Sono anni che Vicenza ha visto crescere la sua superficie urbanizzata, realizzando, oltre alle cubature residenziali e direzionali, scatole commerciali, enormi spazi in cui i piani attuativi hanno distribuito, oltre alle strutture prefabbricate, strade e parcheggi, per permettere di raggiungere, naturalmente con l'automobile, i desideri, quei desideri che ti fanno sentire in ego, ma che invece contribuiscono ad accrescere la propria miseria sociale in una realtà in cui l'agire collettivo è diventato un'eccezione.
Spiace constatare, a parte le ormai note ed arcinote considerazioni sulla scarsa rilevanza del soggetto persona, quale ricercatore di servizi e spazi pubblici, sempre più rarefatti, l'irrilevante peso che assumono gli spazi verdi, spazi che, magari a livello di superficie a standard dimostrano di rientrare abbondantemente nei parametri di legge, sono ben lontani dal costituire un verde urbano quale fulcro di aggregazione sociale. Luoghi di fruizione ed utilizzo pubblico e culturale, e soprattutto di memoria, nel caso delle dismissioni industriali, di ciò che è stato abbandonato, in cui un tempo, nel bene (lavoro) e nel male (inquinamento e scarsa salubrità ) c'era un pezzo di città che viveva attorno alla fabbrica. Un'economia, interna ed esterna, in cui il concetto di comunità era un principio fondante. Con queste terminologie rischio di trascinarmi in un dialogo con Adriano Olivetti, del suo concetto, e dei suoi tentativi di fare urbanistica nel territorio del Canavese (siamo negli anni dell'immediato secondo dopoguerra, fino al 1960, l'anno della sua morte). La strada è lunga, da Ivrea a Vicenza, ma le scuole di pensiero corrono veloci e si diffondono, anche in realtà in cui la scarsa capacità di apprendere a favore del profitto genera mostri. Prometto di riprendere l'argomento Olivetti, in salsa vicentina, più avanti, ora, visto che poco sopra ho citato il termine mostri, non posso non ricordare il pesante mostro che la comunità di Borgo Berga ha visto nascere sui ruderi di una civiltà industriale che in poco tempo è naufragata negli abissi, cancellando, storia, memoria e cultura. Si perché anche l'industria è cultura, e Vicenza è riuscita a perdere tutto questo. Forse l'Interspar ci rende tutti felici e contenti, e ci fa dimenticare.
Parlando di dismissioni industriali piange veramente il cuore vedere all'estero, come il concetto di riqualificazione urbana, si è sviluppato per creare spazi sociali, e aree verdi, riconsegnando il territorio ai suoi abitanti, senza perdere la memoria del passato: l'esempio più eloquente è il bacino della Ruhr, nella Germania nord-occidentale, un'ampia area, un land, che ha visto subire le prime trasformazioni attorno alla metà del IX secolo. Le politiche di dismissione industriale, operate in vasta scala, nei primi anni duemila, non hanno lasciato nell'oblio questo immenso patrimonio, in attesa dello speculatore di turno (Vicenza ha in parte già pagato, e per il resto è in attesa: la spina ovest chiede vendetta). Non si sono fermate, hanno agito nel più naturale dei metodi, reinventando il territorio.
Intanto un altro grido di allarme si fa sentire lungo viale Margherita, un viale storico per Vicenza che ha come sfondo, a sud, l'arco delle scalette, ai piedi di Monte Berico, ai lati Borgo Berga (che non si vede, in quanto nascosto dalla Giustizia), e l'area di Santa Caterina. Frammenti di storia vicentina. Il Piano degli Interventi, adottato a fine ottobre, prevede cupi orizzonti sull'area dismessa che fino a qualche poco tempo fa era occupata, infelicemente, da una stazione di servizio. Fa impressione il simbolo PU1 (Progetto Urbano), come indicato nella tavola 5 della zonizzazione, ed immergersi, poi, nella distensiva e rilassante lettura dell'art. 55 delle Norme Tecniche Operative. Un buon "libro" da leggere durante le feste natalizie, per addentrarci nei misteri dei "Signori dell'Urbanistica".
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