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Notizie sul lavoro (e un tentativo di interpretare dati altrimenti nascosti)

Di Giorgio Langella Sabato 7 Marzo 2015 alle 19:17 | 0 commenti

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In questi giorni si possono leggere notizie che fanno intendere come la crisi occupazionale, che soffoca da troppi anni la vita di chi vive del proprio lavoro, stia finendo. L'occupazione, ci dicono, sta migliorando. Negli ultimi mesi, ribadiscono dal governo, ci sono segnali positivi. E snocciolano dati che dimostrerebbero senza ombra di dubbio il loro ottimismo.

Ci fanno sapere che, a dicembre, il tasso di disoccupazione è calato e gli occupati sono più dell'anno scorso. E che quelli provvisori di gennaio confermano il trend positivo. Vedrete, ci dicono, che con la nuova legge sul lavoro il futuro sarà radioso. E costruiscono l'ennesimo successo mediatico per Renzi e il suo governo. Queste notizie positive, però, non trovano corrispondenza con quanto si vede nelle zone industriali delle nostre città. Capannoni vuoti e fabbriche con i cancelli chiusi. Continue crisi aziendali che portano a pesanti ridimensionamenti di organico, licenziamenti, mobilità, cassa integrazione (quando va bene) ... povertà crescente, rassegnazione e rabbia.

Nasce il legittimo dubbio che ci sia qualcosa di volutamente difforme tra l'ottimismo delle notizie diffuse dai giornali e la percezione di un lavoro sempre più difficile, latitante e insicuro. I sintomi di una crisi occupazionale che non rallenta, infatti, ci sono ancora tutti. Chi, per vivere è costretto a lavorare, li tocca con mano ogni giorno. E, allora, è bene provare a leggere anche i dati che vengono messi a disposizione da ISTAT, Veneto lavoro e altre fonti che vengono abitualmente taciuti perché considerati ininfluenti per la “notizia” della fine della crisi. Dati che sarebbe corretto mettere in relazione tra loro e con quelli divulgati perché considerati positivi. Uno sforzo di interpretare i numeri e le relazioni che servirebbe a comprendere meglio se l'ottimismo governativo è realistico o si riduce sostanzialmente a una manovra propagandistica. Una manovra che serve a giustificare decisioni e leggi che, invece di portare maggiore benessere ai cittadini, colpiranno ancora una volta i lavoratori rendendoli sempre più precari e, quindi, ricattabili.

A livello nazionale, i dati (non destagionalizzati) dell'ISTAT riportano che, a fine 2014, i lavoratori occupati sono 22.375.000. Sono 156.000 in più rispetto al 2013. Ma ci dicono anche che le forze di lavoro sono composte (a fine 2014) da 25.794.000 persone, con un aumento, rispetto all'anno precedente, di 363.000 unità. Questo comporta un incremento delle persone in cerca di occupazione che passano in un anno da 3.212.000 a 3.420.000 (+208.000 unità). A fine 2014, il tasso di disoccupazione raggiunge, quindi, il 13,26% (nel 2013 era del 12,63%).

Un altro dato che bisogna tenere presente è che l'incremento annuale (pari a +0,7%) degli occupati interessa esclusivamente i lavoratori che hanno più di 50 anni (+5,8%). Infatti, per quanto riguarda la classe di età inferiore ai 34 anni si registra un calo dello 0,2% mentre per la fascia dei 35-49enni il calo è ancora più marcato e raggiunge il 2,3%. La “riforma” Fornero sulle pensioni con l'aumento dell'età pensionabile ha certamente influito in quello che è un mancato ricambio generazionale. L'invecchiamento dei lavoratori occupati comporta (è logico pensarlo) una maggiore “stanchezza” produttiva con evidenti ripercussioni in un progressivo declino industriale che ormai è caratteristica della nostra economia.

Un altro aspetto negativo è dato dal fatto che, pur essendoci una lievissima crescita degli occupati a tempo pieno (+0,2%), esiste un aumento elevato (+3,2% pari a 128.000 unità) degli occupati a tempo parziale. In questa tipologia di lavoro bisogna evidenziare la crescita molto consistente del part-time involontario che riguarda ormai il 64,1 dei lavoratori a tempo parziale (nel 2013 tale percentuale era pari al 62,1%). Vuol dire che una gran parte di lavoratori sono costretti a lavorare meno, con un salario basso, in situazioni di crescente disagio e precarietà.

L'ennesimo dato drammatico è relativo proprio all'aumento delle forme di lavoro precario. I lavoratori dipendenti con contratto a termine sono aumentati, in un anno, di 145.000 unità (+6,6%) e i collaboratori non dipendenti sono cresciuti di 31.000 unità (+8,9%). Facendo un paio di facili operazioni aritmetiche si capisce che i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono calati dal momento che i 156.000 occupati in più registrati tra la fine del 2013 e la fine del 2014 sono abbondantemente superati dall'aumento di chi ha un contratto a termine e di chi ha accordi di collaborazione esterna.

E in Veneto?

Per quanto riguarda il lavoro dipendente, nel 2014 ci sono state 665.000 assunzioni e 681.200 cessazioni con un saldo negativo annuo di 16.200 posti di lavoro cessati. Nel quarto trimestre le cose sono andate molto peggio con 142.000 assunzioni e 209.400 cessazioni (-67.400). I dati per provincia evidenziano come la sola provincia di Belluno ha registrato un saldo positivo  (nella tabella, fonte “Veneto lavoro”, i valori sono arrotondati alle centinaia)

Provincia

Assunzioni

Cessazioni

Saldo

Belluno

8.800

7.900

800

Padova

21.200

29.500

-8.300

Rovigo

6.700

10.700

-4.000

Treviso

22.900

31.700

-8.800

Venezia

32.400

47.600

-15.200

Verona

29.900

54.300

-24.400

Vicenza

20.200

27.500

-7.300

Secondo gli elenchi dei Centri per l'impiego, a fine 2014, i disoccupati sono 474.100 e confermano il dato drammatico del 2013 quando furono 473.900 registrando una crescita esponenziale rispetto agli anni precedenti. Erano 426.200 nel 2012, 377.900 nel 2011, 338.400 nel 2010, 302.800 nel 2009, 240.200 nel 2008. In soli 7 anni i disoccupati veneti sono quasi raddoppiati!

A fine 2014, i lavoratori in mobilità (legge 223/91 – licenziamenti collettivi) sono 26.107 con un aumento di 4.395 unità rispetto al 2013 quando erano 21.712.

Questi i dati di una crisi occupazionale che risulta arduo definire conclusa o, anche, in via di soluzione. I timidi segnali positivi così evidenziati da governo, confindustria e informazione nazionale, sono cancellati da una realtà fatta ancora di lavoro che, quando esiste, è saltuario, effimero, insicuro (in tutti i sensi), mal pagato.

Ci assicurano che con il “jobs act” in vigore da domani le cose cambieranno e che ci saranno migliaia di assunzioni. Il ministro Poletti ne prevede 150.000, un numero ininfluente di fronte ai 3.420.000 disoccupati e ai milioni di rassegnati che, pur non comparendo nelle statistiche, sono comunque senza lavoro. La situazione del lavoro in Italia resterebbe drammatica. Anzi peggiorerebbe in quanto, contestualmente, si deve considerare (e sarebbe corretto farlo) un incremento ben più consistente delle forze lavoro. Il “jobs act” non garantirà un lavoro continuativo e sicuro. Il lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, combinato con la cancellazione dell'articolo 18 che, di fatto, permetterà licenziamenti indiscriminati anche senza giusta causa, significa che un lavoratore non sarà mai sicuro di un futuro garantito dal proprio lavoro perché questo potrà finire in qualsiasi momento ...

... oggi si viene a sapere che, nel 2014, Sergio Marchionne ha ricevuto uno “stipendio” di 6,6 milioni di euro (2,5 milioni come retribuzione annuale, 4 milioni come incentivi, 111.410 come "altre compensazioni”) e “incentivi straordinari” per 59,7 milioni. Questi ultimi elargiti perché "sotto la guida di Marchionne, è stata creata Fca, generando un enorme valore per la compagnia, i suoi azionisti e i dipendenti". Ma quanta ricerca e innovazione si potrebbero finanziare con quei soldi dati ad un'unica persona? Quanti posti di lavoro sicuri e continuativi si potrebbero creare? Di fronte alla situazione drammatica che vivono milioni di lavoratori e le loro famiglie, di fronte alla povertà nella quale si trova oltre il 12% delle famiglie italiane, questa ricchezza devoluta a un uomo solo risulta intollerabile. E non si parli di populismo o invidia verso chi è ricco, questa “piccola denuncia finale” evidenzia soltanto la voglia di una società più giusta, migliore di quella che il liberismo trionfante ci sta imponendo.

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