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Prof. Fontana: Nelle vicende risorgimentali i valori per costruire l'Italia del futuro

Di Redazione VicenzaPiù Lunedi 14 Marzo 2011 alle 20:46 | 0 commenti

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Giovanni Luigi Fontana (Università degli Studi di Padova) - Consiglio comnale straordinario

Nell'anno 1 del Mille - talvolta anche le date della storia assumono significati simbolici - alcune famiglie nobili di Roma, con le loro bande armate, attaccarono la residenza dell'imperatore sassone Ottone III, che si trovava sull'Aventino, costringendolo a lasciare la città.

"Sembra un episodio di violenza politica tra i tanti di quel tempo e invece, all'alba del Mille, finiva con questa fuga un progetto politico che, se realizzato, avrebbe probabilmente creato le basi reali di un'Italia unita con molti secoli di anticipo. La Casa Sassone, infatti, con i tre Ottoni perseguiva dal 962 il disegno di unificare la penisola, partendo dall'Italia meridionale, piegando a questo progetto anche il Papa e restaurando in tal modo l'antico Impero romano con Roma capitale. Ma oltre ai feudatari tedeschi (i quali non volevano che il loro sovrano disperdesse i privilegi e le prerogative imperiali), furono i nobili romani ad opporsi alla politica ottoniana sia perché avrebbero perso gran parte dei loro, chiamamoli così, diritti (fondati spesso su abusi e prepotenze di casta), sia perché preferivano avere un pontefice da loro controllato che essere controllati da un sovrano tedesco. Seppure in circostanze politiche diverse, oltre tre secoli dopo, Cola di Rienzo tenterà di fare di Roma il luogo della rinascita della tradizione e della cultura latina e romana. Il suo sogno, tanto amato da Francesco Petrarca, sarà distrutto dalla parte più violenta dell'aristocrazia romana, che da quel momento in poi si allineò al potere temporale della Chiesa fino al 1870, quando i bersaglieri sfonderanno le mura aureliane a Porta Pia portando l'Italia [già unificata dal 1861] a Roma".
Il Risorgimento, ovvero il processo storico-politico-territoriale che portò alla formazione dello Stato unitario nazionale italiano, si svolse nell'arco di un quarantennio del XIX secolo, ma l'idea di Italia e il sentimento di italianità che lo alimentavano avevano radici molto più profonde e lontane nel tempo, presenti sia nella letteratura del patriottismo romantico sia nell'ideale mazziniano della "Terza Roma" come pure nel giobertiano Primato morale e civile degli italiani, con i loro riferimenti al comune sostrato culturale e alla missione civilizzatrice dell'Italia, fondati sull'eredità del mondo classico ripresa ed aggiornata con l'Umanesimo e il lungo Rinascimento. Un comune sostrato innanzitutto linguistico, creato dal lento emergere di una lingua nuova, parlata, affrancatasi dal latino e dai suoi vocaboli, pur usandoli e trasformandoli, per dar vita, già prima del Mille, ad un linguaggio comunitario e dunque incipientemente "nazionale", connesso al "formarsi anche di strutture locali e regionali, di attività economiche, di produttività letteraria, storica, giuridica e filosofica" che furono alla base della fioritura, dopo il Mille, dei Comuni e, tra questi, delle Repubbliche marinare (Venezia, Amalfi, Pisa, Genova), "inedite città-Stato" che prefiguravano quelle che sarebbero state ", in grande, le potenze commerciali, militari e imperiali dell'epoca moderna".
Dopo l'età romana, i primi due secoli a cavallo del Mille costituirono, nella storia italiana, una sorta di "primo atto di un grande dramma storico che racconterà, sulla scena della storia d'Europa, il lento, problematico passaggio di un popolo dalla divisione all'unità, dalla multiformità di istituzioni, di entità giuridiche, di municipalismi conflittuali, alla identificazione, otto secolo dopo, nel tempo del Romanticismo e del Risorgimento, tra popolo, nazione, lingua, Stato".
All'interno e nelle lotte tra le grandi istituzioni del sistema feudale (l'Impero, il papato, i comuni, le repubbliche marinare) si formarono le immagini, le idee, le proiezioni culturali di poeti, artisti, scrittori, filosofi, tra impulsi innovatori e ritorni alla grandezza della Roma classica. Tra tutti questi soggetti istituzionali, fu il Comune, la "città", che si posero al crocevia del processo di formazione dell'idea di Italia (come alternativa frustrata vi fu il progetto di Federico II di Svevia, imperatore germanico e re di Sicilia, di fare dell'Italia meridionale il primo grande segmento di Stato-nazione che avrebbe potuto inglobare l'esperienza e le conquiste comunali dentro un tessuto unitario simile alle monarchie).
Non era dunque per caso "che nel XIX secolo, durante gli eventi che portarono l'Italia alla libertà e all'unità nazionale, i riferimenti culturali e ideologici dei liberali e democratici del Risorgimento fossero, nello stesso tempo, le ‘libertà comunali' (la libertà e la cittadinanza, "l'aria delle città" che "rende liberi") e il sogno federiciano di un'Italia libera dalla Chiesa e guidata da un sovrano nazionale. Due modelli così connaturati allo svolgimento reale della storia d'Italia da essere, ancora oggi, un problema politico e un oggetto di discussione sul tema del rapporto tra federalismo e centralismo, tra autonomie e necessità di salvaguardia dell'unità statuale.
Ma il XII-XIII secolo fu anche l'epoca in cui, nello scontro tra Chiesa e Impero, con la penisola italiana divenuta la regione-chiave della cristianità occidentale, nacque un dualismo dalle tragiche conseguenze tra Federico I di Svevia con il disegno politico degli Hohenstaufen ("ghibellini") e la casa di Baviera ("guelfi"), che appoggiava il Papa. Nella secolare "guerra civile" degli italiani fu costretto all'esilio Dante Alighieri "che di una "idea di Italia" aveva una percezione lucidissima come appare evidente nel motivo politico ispiratore della Divina Commedia, nel De Monarchia e nelle Epistole. Vale la pena di ricordare che il pensiero politico di Dante "fu di grande spessore teoretico" non solo perché egli attendeva dall'imperatore germanico Enrico VII la pace e la libertà che mancavano agli italiani, ma anche perché "in questo pensiero si risolveva e si concludeva la tradizione medioevale scolastica dei duo luminaria magna (l'Impero e la Chiesa), identificando nel monarca pacificatore, inviato da Dio non per conquistare ma per portare pace e giustizia, la conciliazione di potere politico e potere religioso.
Con una passione politica ancora più bruciante, Francesco Petrarca percorse gran parte del secolo XIV rivendicando all'Italia un'identità nazionale e statuale, spiegando che sulle fondamenta culturali del mondo classico era possibile costruire una moderna identità. "Italicus sum" , disse orgogliosamente di sentirsi e dunque non poteva accettare che la creazione di un'Italia intesa come entità unitaria sul piano geografico, storico e morale potesse avvenire - come invece realisticamente sosteneva Dante - con l'intervento straniero.
Bisogna naturalmente intendersi sul senso che intellettuali come Dante e Petrarca davano alle parole "libertà" e "nazione", ma non va sottovalutata l'importanza dell'intuizione di una monarchia unitaria capace di dare pace e di "restaurare le forze degli italiani, che la ferocia di lunghe guerre civili ha disperso". "Un'Italia con Roma caput mundi, grazie anche alla rinnovata dignità della Chiesa, ma dove vi fosse anche una signoria con un princeps (Cola di Rienzo) clemente e liberale, motore di magistrature e di istituti rispettosi degli interessi del popolo".
E' così che tra i richiami ideali dell'età del Risorgimento troviamo, tra i liberali, i democratici e i repubblicani, da Cavour a Cattaneo a Mazzini, il riferimento a Cola di Rienzo, la cui figura fu esaltata in quegli anni anche nei movimenti liberali d'Europa. Non a caso una delle prime opere liriche di Wagner (ricordiamo che il musicista salì sulle barricate del 1848 a Dresda) fu dedicata proprio a "Rienzi". L'avventura di Cola di Rienzo si concluse nel tragico anno della peste - il 1348 - che Boccaccio seppe riscattare con un'opera che era un inno alla vita, tradotto dal Bruni in termini di libertà politica, elaborando questo essenziale concetto: libertà equivale a cultura e quindi la tirannia a decadenza culturale.
Le origini del Rinascimento coincisero con la civiltà comunale e con l'inizio del modo di produzione capitalistico, accompagnato da innovazioni economiche, finanziarie, tecnologiche, scientifiche e da una fioritura letteraria, storica e artistica che avrebbero portato a fondare su questi primati una tradizione e un'identità italiana prive però di un principio unificatore e di una forza superiore cui appoggiarsi.
La conseguenza del dualismo guelfi-ghibellini fu che le città italiane si svilupparono e maturarono pienamente le capacità e i valori più alti della cultura, dell'arte, dell'organizzazione finanziaria, mercantile e agricola, ma dal punto di vista politico, fallendo anzitutto l'ideale ghibellino-imperiale, non riuscirono ad affermare la propria indipendenza di fronte all'impero, né di conseguenza di fronte alla Chiesa, trascinando la storia d'Italia successiva dentro il groviglio di interessi internazionali (francesi e spagnoli, innanzitutto) e contribuendo a fare della penisola una sorta di spazio disponibile alle dominazioni straniere.
Così, nel Quattrocento e Cinquecento, quando il pensiero e l'arte italiana avrebbero raggiunto modelli ineguagliabili di modernità e di crescita intellettuale, dando un contributo determinante alla "nascita della nazione", il superamento degli istituti comunali e il formarsi di nuovi modelli politici, come le signorie e i principati, resero ancora più problematico e irraggiungibile il miraggio di un'Italia unita. Questo problema - analizzato nelle sue cause e conseguenze da due sofisticati politici e storici come Guicciardini e Machiavelli - sarà senza soluzione proprio nei secoli più affascinanti, quelli che segnano le pagine più ricche di eventi della storia italiana: i secoli dell'Umanesimo, del Rinascimento, dei grandi scismi religiosi, dell'età barocca, delle grandi scoperte teoriche, geografiche e scientifiche, che faranno dell'Italia un punto di riferimento essenziale nella storia d'Europa.
Secoli che, con i domini stranieri, avvieranno anche la decadenza politica ed economica italiana, fino all'età dei lumi, dell'utopia e delle riforme, dove, in contrasto con la storiografia idealistica che coglieva nel nesso indissolubile tra indipendenza nazionale e libertà politica la peculiare atmosfera spirituale del Risorgimento, la cd scuola economico-giuridica trovava i primi fermenti e i germi non solo degli ideali di libertà, ma anche dei concreti programmi di riforme istituzionali, economiche e sociali che avrebbero portato alla "rinascita nazionale" - questo si intendeva con il termine Risorgimento -, al progresso civile e più oltre anche all'indipendenza politica.

Su questa strada, il Risorgimento vide intrecciarsi componenti spirituali e politiche, atteggiamenti letterari e culturali, eventi diplomatici e militari, trasformazioni economiche e sociali che, da un lato, erano il portato della millenaria storia della penisola italiana e del contesto mediterraneo in cui essa da sempre si era inscritta, dall'altro dei grandi eventi europei e mondiali, che dall'età dell'illuminismo e delle rivoluzioni politiche ed economiche succedutesi tra il secondo Settecento e la prima metà dell'Ottocento, cambiarono il corso della storia e i destini dei popoli.

La valutazione critica e storiografica del Risorgimento ha dato luogo ad una problematica vasta e complicata, dettata spesso da divergenze di ordine ideologico o apertamente politico. "Si sono avute così interpretazioni del Risorgimento prevalentemente politico-territoriali e concezioni etico-politiche e culturali; interpretazioni ottimistiche ed agiografiche di fronte ad altre pessimistiche e negative; interpretazioni nazionalistiche e tradizionalistiche o empiristiche e moderniste; tesi monarchiche e moderate di fronte a tesi repubblicane e democratiche". Spesso queste polemiche storiografiche e/o politiche sono state la continuazione o la ripresa di polemiche risorgimentali.
Esse erano già evidenti nel modo in cui venne impostato il citato problema delle origini del Risorgimento. Così la storiografia "sabaudista" ed idealistica, vedendo nel Risorgimento soprattutto il processo culturale ed etico-religioso, ne rivendicò il carattere autoctono e l'originalità rispetto alle influenze politiche e culturali straniere, particolarmente rispetto alla rivoluzione francese e al periodo napoleonico, cui una storiografia più attenta e matura ha invece attribuito il momento di incubazione dell'idea nazionale italiana: in via diretta, attraverso il giacobinismo e la propaganda rivoluzionaria; in via indiretta e ancora maggiore "attraverso la reazione agli abusi dell'occupazione francese da parte degli stessi patrioti e ‘giacobini' italiani, tra i quali venne così a prendere corpo l'idea della repubblica italiana ‘una e indivisibile'.
In tal modo l'idea nazionale italiana nasceva, fin dalle origini, in stretto legame con la rivendicazione di una più ampia libertà e col nuovo contenuto di diritti scaturito da tutto il moto rivoluzionario; e, più specificamente, come espressione e determinazione di tale contenuto sul terreno politico. Ciò segnava una netta separazione e contrapposizione tra il moto risorgimentale e le spinte xenofobe antifrancesi a carattere sanfedistico di quegli stessi anni; e ancor più nettamente distingueva il moto risorgimentale dai disegni di unificazione politico-diplomatica della penisola che erano stati in varie forme avanzati già durante l'antico regime".
Costretti nei limiti segnati dall'autoritarismo imperiale del periodo napoleonico, i temi nazionali e liberali sopravvissero e si svilupparono nelle istituzioni e nell'ideale proposto dal Regno d'Italia, nelle accademie, nei circoli privati e nella letteratura di stampo alfieriano e foscoliano, "sì che essi poterono dispiegarsi con vigore già qualche anno dopo il 1815 negli ambienti milanesi del ‘Conciliatore', nelle congiure dei federati e nella connessa rivoluzione piemontese del 1821, nella quale disegni liberali e nazionali già si univano con l'intento di far confluire le ambizioni territoriali sabaude nelle aspirazioni all'unità d'Italia.
Queste finalità e questi caratteri nazionali mancavano interamente o furono appena accennati nei moti costituzionali di Napoli e Sicilia dello stesso 1820-21: ma la stretta connessione tra istanze liberali e movimento nazionale colloca per intero anche quei moti nell'alveo del processo risorgimentale, e vieta di restringere l'ambito cronologico di questo (come da alcuni si vorrebbe, specie nella storiografia anglosassone) al solo trentennio successivo al 1830, che vide la generalizzazione in senso nazionale dei temi di libertà maturati nel periodo precedente".
Se la suddetta generalizzazione si verificò, ciò si deve in primissimo luogo all'opera di Giuseppe Mazzini: egli, infatti, del sentimento nazionale italiano fu il massimo educatore, imprimendovi suoi specifici tratti distintivi la cui influenza si estese fino al 1848 ed oltre, ed assai al di là della corrente democratica, per investire ambienti e strati sociali destinati più tardi ad essere assorbiti dal liberalismo e dal moderatismo cavouriano; quei tratti restarono anzi a caratterizzare il patriottismo italiano anche nei decenni successivi al trionfo della soluzione monarchica del 1860.
Ma l'unitarismo e il patriottismo mazziniano ebbero anche una componente specificamente democratica, nella misura in cui essi indicarono l'Italia e la sua indipendenza e unità come mete da conquistare con autonoma e diretta partecipazione di popolo, e a tal fine sostituì alle mene delle vecchie società segrete la palese e diretta propaganda [con tutti i rischi annessi e connessi] indirizzata a tutti gli italiani, che si voleva coinvolgere nella rivoluzione nazionale sulla scia delle minoranze eroiche, animate dal proposito e dall'ideale del sacrificio [cfr., pur nella diversità di posizioni, il passo di Pisacane citato da Luigi Poletto].
Se anche rimase estraneo il vastissimo mondo contadino, il mazzinianesimo ebbe influenza e consensi assai larghi negli strati popolari e nell'artigianato cittadino, specie del nord e del centro della penisola" (compresa Vicenza). " A Mazzini si dovette una radicale rottura con l'attesa (che aveva caratterizzato anche i moti del 1831) che indipendenza e unità potessero derivare da combinazioni diplomatiche e alleanze europee, e l'affermazione come imperativo supremo, del dovere degli italiani di conquistarle invece per virtù e forza propria: donde il significato e il valore educativo [direi permanente] dei concetti mazziniani di dovere e azione. Tutto ciò culminava nell'ideale della "Terza Roma" [dopo quella dei Cesari e quella dei Papi], nella quale avrebbe dovuto prendere forma la missione universale della nuova Italia come promotrice di libertà in tutta Europa, ed erede della ormai esaurita iniziativa francese.
Di questi temi, che fanno di Mazzini uno dei massimi esponenti dell'idea di nazionalità sul piano europeo e mondiale, si è anche sottolineato il rischio che degenerassero nel senso dei più tardi nazionalismi: "ma - come ha osservato Rosario Romeo - se in epoche successive vi fu certo una ripresa di insegnamenti mazziniani in questa direzione, resta tuttavia indiscutibile lo stretto legame che il mazzinianesimo conservò, in tutta l'età del risorgimento, con i moti popolari e liberali, nell'ideale di una Europa dei popoli contrapposta all'Europa dei re: e ciò basta a distinguerne nettamente la fisionomia storica da quella dei nazionalismi del tardo Ottocento e Novecento".
Lo slancio nazionale e popolare del mazzinianesimo si scontrava tuttavia con una realtà italiana ancora legata pressoché ovunque ad uno stagnante immobilismo, frazionata in una serie di ambienti regionali e locali a malapena comunicanti tra loro ed estranea per gran parte alla moderna economia e alla cultura che altrove, con l'illuminismo e l'esperienza rivoluzionaria aveva rotto drasticamente con la tradizione. Questa realtà, nella quale dominava ancora un ceto di proprietari fondiari e di ottimati locali, sullo sfondo della tradizionale società contadina, non riusciva ancora ad esprimere istanze che superassero il quadro dei vecchi stati regionali.
Mentre Mazzini tentava di creare un partito ispirato ad una visione unitaria del problema italiano, l'evoluzione del pensiero liberale manteneva caratteristiche prettamente regionali, benché i congressi degli scienziati italiani favorissero lo scambio di idee fra gli intellettuali di tutte le regioni. Nella misura in cui motivi ed aspirazioni tratti dalla cultura liberale europea cominciarono a penetrare nelle frazioni più consapevoli della classe dirigente, si sviluppò un movimento finalizzato a darvi soddisfazione sul piano giuridico, economico e sociale sotto forma di un gradualismo riformista (gabinetti di lettura, riviste, giornali, congressi degli scienziati, ecc.), nell'ambito, per quanto possibile, della struttura e dei poteri dei vari stati regionali.
Da questo tentativo di mediazione, nel ventennio precedente il 1848, nacque il "moderatismo." I moderati si assicurarono l'appoggio di settori dell'opinione pubblica colta grazie al loro patriottismo di carattere culturale e alle proposte di riforme graduali e pacifiche in campo economico, riforme che dovevano evitare i rischi della rivoluzione ed aprire in pari tempo la strada a ulteriori progressi - e sviluppi politici - quando se ne fossero verificate le condizioni.
Il pensiero moderato si caratterizzava per una cautela e limitatezza di obiettivi, alla cui radice stava la debolezza delle spinte sociali ed economiche, che invece erano più accentuate in alcune regioni ed aree del Nord e del Centro. Sotto questo profilo appare oggi insostenibile la tesi che nel Risorgimento voleva scorgere la risultante dell'esigenza di creare un mercato nazionale (lo si raggiungerà solo a fine Ottocento e ciascuna parte del Paese continuerà a mantenere a lungo un rapporto privilegiato con le aree in precedenza ad essa commercialmente legate). Indubbia fu invece la spinta ad avviare un processo di modernizzazione istituzionale, economica e sociale che cominciasse a colmare il gap accumulato con le aree più avanzate d'Europa con le quali soprattutto la nascente borghesia industriale aveva sempre più intensi rapporti (cfr. le esperienze di Alessandro Ross col lanificio di Schio).
In questa prospettiva assunsero una funzione decisiva le minoranze intellettuali e politiche alle quali si dovette - con le varie correnti in cui il movimento liberal-moderato si articolava - l'elaborazione di una serie di obiettivi, poi raccolti nel "Programma per l'opinione nazionale italiana" di Massimo D'Azeglio, che andavano dall'unione doganale alla creazione di un sistema ferroviario che abbracciasse tutta la penisola, a riforme amministrative e giudiziarie, alla unificazione di pesi e misure e della legislazione commerciale, all'abolizione dei vincoli e alla riduzione degli oneri fiscali sulla proprietà fondiaria, all'adozione di tecniche agricole moderne, al liberismo economico come premessa di quello politico: "un programma rispondente certamente alle esigenze delle aree più evolute del Paese, ma largamente in anticipo rispetto alle condizioni generali di un'economia nel suo complesso ancora molto arretrata".
L'atteggiamento ottimistico dei moderati settentrionali nei confronti delle conseguenze positive del progresso economico doveva molto all'opera di Giandomenico Romagnosi e soprattutto di Carlo Cattaneo (1801-61). I contributi di Cattaneo agli "Annali universali di Statistica" e al "Politecnico" negli anni '30 e '40 esercitarono un influsso profondo sugli intellettuali moderati e su quelli radicali di tutta la regione padana per la loro capacità d'informazione continua e precisa sullo sviluppo economico mondiale, per l'analisi delle ragioni storiche del progresso dei paesi occidentali e per la costante applicazione di questi dati empirici alle prospettive dell'economia lombarda e dell'Italia settentrionale.
Cattaneo aveva un'avversione profonda per le organizzazioni settarie e per la retorica emotiva della propaganda patriottica che considerava sostituti diseducativi dello studio dei problemi reali e immediati la cui soluzione costituiva l'autentico progresso. La posizione di riformista indipendente assunta da Cattaneo era sotto molti aspetti simile a quella di Pietro Verri un secolo prima. Per la sua costante affermazione della razionalità, dell'utilità e dei risultati innovatori delle scienze sperimentali, Cattaneo si riallacciava alla grande tradizione illuministica, ma era anche consapevole dei limiti dell'illuminismo (eccessivo individualismo; interpretazione del passato come movimento lineare del progresso verso il conseguimento dei "lumi") e così pure del romanticismo (accentuazione emotiva dell'intuizione e culto delle tradizioni del passato). Fino al 1848 questo intellettuale - il più serio, profondo e versatile di tutto il Risorgimento - si astenne scrupolosamente da ogni attività politica.
Contrariamente a Cavour, che auspicava una fusione tra l'aristocrazia e la classe media, Cattaneo, figlio di un gioielliere, vedeva il futuro nelle mani di quest'ultima, destinata, grazie alla propria azione autonoma, a sostituirsi all'aristocrazia e a proseguire ulteriormente sulla strada del progresso. Sulla scia del pensiero di Romagnosi e degli economisti inglesi della scuola classica, Cattaneo vedeva il progresso civile accompagnato e contrassegnato da quello economico, che a sua volta dipendeva dalla libera competizione, e riconosceva al commercio e all'industria la funzione fondamentale di forze motrici dello sviluppo economico.
Come maestro non ebbe eguali perché ebbe una parte di primissimo piano nell'elevare l'informazione tecnica ed economica dei settori progressisti della società italiana al livello dei paesi più avanzati d'Europa. Rimase però politicamente isolato. Ancora alla vigilia del '48 scorgeva il futuro della Lombardia nell'ambito di un Impero austriaco che, abbandonata la sua paralizzante politica accentratrice, si indirizzasse verso una federazione di liberi ed eguali Stati nazionali sotto la corona degli Asburgo; il Lombardo-Veneto (nonostante lo sviluppo economico del Veneto fosse più rallentato rispetto alla Lombardia: una capitale Milano vs una ex-capitale in crisi Venezia) avrebbe primeggiato, come la nazione più progredita e civile, in questa federazione, e sarebbe poi stato in grado di abbandonarla pacificamente per unirsi alla federazione italiana, ma solo quando gli altri Stati italiani si fossero elevati, con l'adozione del liberismo economico e del liberalismo amministrativo e politico, allo stesso livello della civiltà lombarda.
Con la sua attività, all'atto pratico Cattaneo contribuì a dare serietà e prestigio proprio al movimento moderato che, nel frattempo, con la diffusione del neoguelfismo, si verificava lo spostamento di una parte del mondo cattolico dallo schieramento conservatore a quello liberale. Il quadro era molto complesso e il Veneto ne era uno specchio esemplare. Diversamente rispetto all'epoca veneziana, il peso del clero veneto "crebbe allora in una misura che l'eredità giurisdizionalistica del governo aristocratico non avrebbe lasciato prevedere" col "risultato di formalizzare e di cristallizzare, in via pressoché definitiva, il livello di religiosità della gente sia nel centro urbano che nei nostri centri rurali, portando a compimento un processo già avviato in epoche precedenti e teso ad assegnare al clero, "supplente" dello Stato, un numero assai elevato di funzioni organizzative e civili, dall'istruzione primaria alla registrazione dei dati anagrafici". Si ebbe, insomma, un processo di "clericalizzazione" della società dalle conseguenze di lunga durata sia per il vicentino che per il Veneto. Il rapporto tra istituzioni statali ed ecclesiastiche si rifletteva sul piano della mentalità e dei comportamenti collettivi. Lo Stato monarchico, tradizionalista e restauratore, aveva puntato al controllo della società civile, della cui "moralizzazione" e "cattolicizzazione" complessiva si era fatto carico, cercando di saldare le proprie esigenze e finalità con quelle della gerarchia.
In Veneto e nel Vicentino la Chiesa cattolica riuscirà a tenere un piede in tutte le staffe: austriacante con gli austriaci e liberale con i liberali in istituzioni e momenti differenziati, "grazie a rappresentanti diversi e consci della differenziazione, ma ricondotti all'obbedienza comune di un unico centro le cui finalità, sopra le distinzioni politiche, convergono verso la realizzazione di ben determinati equilibri sociali ed economici." Di qui l'enorme importanza del seminario vicentino contrassegnato dall'indirizzo classicistico di don Carlo Bologna e penetrato dalle idee rosminiane e giobertiane, cui affluivano i rampolli delle più distinte famiglie della provincia: fra le aule del seminario passarono letterati e poeti e uomini di grande avvenire politico. Personaggi attivi nell'istituto tra gli anni '30 e '40 furono poi protagonisti nel moto quarantottesco. Il Seminario si configurò come autentica scuola della borghesia e punto di riferimento per il clero progressista in un periodo in cui autorità statali e di governo restituivano alla Chiesa un primato andato perduto o ridimensionato nel corso delle vicende rivoluzionarie. Le peculiarità del clerico-moderatismo con venature di cattolicesimo liberale presente nel seminario tra gli anni '20 e '40 dell'Ottocento giocarono un ruolo rilevante e positivo sia sugli sviluppi risorgimentali che su quelli postunitari della storia vicentina, ma questo ruolo fu condizionato dalle tendenze ben più concrete dei singoli protagonisti e delle famiglie da cui uscivano.
I moderati erano riuniti in vari gruppi a base regionale e non formavano un partito con un programma politico di carattere nazionale, come quello che Mazzini aveva tentato di creare. In definitiva, fu Vincenzo Gioberti a dare ai moderati un simile programma e su questo essi costruirono rapidamente la struttura rudimentale di un partito capace di presentarsi come un'alternativa concreta a Mazzini e ai democratici.
L'opera Del primato morale e civile degli Italiani ebbe, al di là della scarsa originalità, un successo strepitoso. Le idee fondamentali derivavano in parte dagli scritti dei cattolici progressisti, impegnati a conciliare sul piano teorico la religione con la causa dei popoli oppressi e della libertà, in parte dal tradizionale culto umanistico del primato culturale italiano. Si trattava di un programma di riconciliazione nazionale da opporre alle aspirazioni di rivoluzione nazionale dei democratici. Gioberti, affermando il primato italiano, esortava alla liberazione dell'Italia dalla tutela francese mediante la creazione di una confederazione italiana sotto la guida del suo capo naturale, il papa, sostenuto dalla forza militare del Piemonte. Per tre anni, dal 1845 al '48, il neoguelfismo predominò in Italia e con l'elezione di Pio IX mobilità settore sempre più vasti dell'opinione pubblica, riportando un successo che Mazzini non avrebbe mai raccolto e ottenendo adesioni anche tra le fila dei democratici.
Il biennio rivoluzionario del 1848-49, con la molteplicità e la contraddittorietà delle forze in gioco, con la repentinità dei cambiamenti di fase e di quadro generale, mostrò tutta la fragilità dell'impostazione moderata, col fallimento della guerra federale subito compromessa dagli egoismi e dai contrasti dei vari particolarismi statali, con le proverbiali incertezze carloalbertine, subito registrate da Garibaldi [Carlo Alberto entrò in guerra sulla spinta degli avvenimenti italiani ed europei e in particolare della vittoria dell'insurrezione milanese; così come la ripresa nel '49 fu dettata dagli eventi ungheresi] e poi con il ritiro di Pio IX dopo l'allocuzione del 29 aprile, con la tiepidezza e precarietà della vocazione liberale di tanta parte della possidenza moderata, assai presto spaventata dalla piega presa dagli eventi, mentre la rivoluzione democratica degli intellettuali radicaleggianti e dell'artigianato cittadino veniva abbandonata dai ceti terrieri e non riusciva a conquistare l'appoggio dei contadini, evidenziando dunque una drammatica debolezza, nonostante la luce che su di essa e su tutto il Risorgimento proiettarono episodi di autentico eroismo, come la difesa di Vicenza del 10 giugno 1848, e le estreme difese di Roma e di Venezia nel 1849.
Tutto ciò spianò la via alla leadership cavouriana e all'iniziativa su basi completamente nuove del Regno di Sardegna. Acquisita credibilità con il mantenimento dello statuto albertino, il Piemonte (con la Liguria era allora la regione più avanzata della penisola) di Cavour riuscì a rifondere le istanze più progressive del liberal-moderatismo prequarantottesco, guadagnandosene via via anche l'apporto diretto, in un programma di modernità ed efficienza assai più elevate, in una più attiva e dinamica azione di governo che impresse un ritmo sempre più accelerato alla vita economica e allo sviluppo civile del Piemonte, facendo impallidire la stessa Lombardia, che era stata fino ad allora e che sarebbe restata anche più tardi alla testa del processo di modernizzazione del Paese.
"Alla politica cavouriana riuscì di realizzare quello che era stato in fondo l'obiettivo del moto liberale fin dal 1821, e cioè la coalizione delle forze della dinastia sabauda con le aspirazioni nazionali del liberalismo, coalizione ampliata fino a comprendere da un lato l'alleanza francese [con abile gioco politico e diplomatico > Crimea > Parigi > IIa Guerra d'Indipendenza, tutta di vittorie dell'esercito franco-piemontese: Montebello, Palestro, ingresso trionfale l'8 giugno a Milano, indi il 24 giugno le sanguinosissime battaglie di Solferino e San Martino, con l'armistizio di Villafranca l'8 luglio] e dall'altro la spinta democratica e mazziniana [con la guerra "parallela" al Nord da parte di Garibaldi], la quale da ultimo venne messa al servizio, attraverso il garibaldinismo, della soluzione monarchico-costituzionale, nonostante gli aspri contrasti e i dissidi che sarebbero sopravvissuti ancora per molti decenni."
L'epilogo si ebbe infatti con la spedizione dei Mille del 1860 e l'ordine, impartito da Cavour, l'11 settembre 1860 di invadere lo Stato Pontificio, di fronte al rifiuto di questo di licenziare le truppe straniere. Agli ordini dei generali Fanti e Cialdini i piemontesi sconfissero più volte le truppe pontificie e si diressero verso Sud ricongiungendosi con l'esercito garibaldino vittorioso sulle truppe borboniche.
Il 17 marzo 1861 veniva proclamata la nuova Italia realizzata da Cavour che, certo, fu inferiore rispetto a quella auspicata da Mazzini. In luogo della "Roma del popolo", destinata ad una missione civile e religiosa di portata universale e a rinnovare la grandezza della Roma dei Cesari e della Roma dei Papi, si aveva un'Italia incapace di risolvere il problema del rapporto con la cattolicità e ansiosa, invece che di promuovere la liberazione delle nazionalità oppresse, di essere riconosciuta come elemento di stabilità e di conservazione del vigente assetto europeo. In luogo di un'Italia che fosse la patria di tutti gli italiani, si aveva uno stato che consacrava il privilegio politico e sociale di una minoranza e nel quale prestò si profilò il problema gravissimo derivante dalla estraneità alla vita politica delle masse contadine, per gran parte ancora soggette all'influsso clericale, e dalla opposizione di quegli strati dell'artigianato cittadino che avevano costituito il nerbo del Partito d'Azione mazziniano e partecipavano della sua delusione.
I gravi problemi del nuovo Stato unitario (organizzazione dello Stato, unificazione doganale, unificazione finanziaria, unificazione monetaria, infrastrutturazione, arretratezza e dualismi economici, ecc.) vennero tuttavia risolti con determinazione e successo, in condizioni assai difficili. Tra questi il completamento del processo di unificazione ottenuto, come la IIa guerra d'indipendenza, in stretta connessione con le vicende diplomatiche e militari europee. Nella terza guerra d'indipendenza l'esercito italiano era numericamente superiore, ma non ancora amalgamato né nelle truppe, né nei vertici militari e, come noto, venne sconfitto sia per terra che per mare. L'Italia ottenne il Veneto grazie agli accordi tra Francia, Austria e Prussia. La guerra franco-prussiana invece tolse di mezzo l'opposizione francese alla conquista di Roma nel 1870.
L'Italia unificata dall'iniziativa politica della borghesia settentrionale, al di sotto della mistica dell'Unità, apparve presto con il duplice volto delle "due Italie" e da alcuni si cominciò a parlare di conquista operata dall'una ai danni dell'altra. Un'intera corrente di "revisionismo risorgimentale" si alimentò di tutto questo: cosicché a lungo si è discusso e ancora si discute di ciò che avrebbe potuto essere un'Italia nata, invece che dalla diplomazia cavouriana, da una costituente mazziniana radunata sul Campidoglio o da una rivoluzione agraria che avesse superato le fratture sociali più gravi della società italiana.
A parte la concreta inagibilità di queste alternative, se il nuovo Stato poteva apparire inferiore nel raffronto con questi ipotetici e un po' mitici modelli, non era invece discutibile la sua superiorità nei confronti della restante società italiana. "Non compressione e repressione di istanze più vaste prementi al di sotto del vecchio assetto politico fu il Risorgimento, ma instaurazione di una struttura politico-sociale ed economica che era largamente in anticipo sullo stadio di sviluppo raggiunto dal paese, lo sollecitava su vie di progresso non ancora intraprese, gli proponeva modelli di civiltà che se non ancora comparabili a quelli realizzati nei paesi più avanzati, erano tuttavia europei e moderni."
E ciò va anche considerato per un retto giudizio sui caratteri autoritari ed "elitari" che per molti decenni conservò il nuovo stato [fino alla vigilia della prima guerra mondiale e per altri aspetti fino al secondo dopoguerra] e che, "se in parte derivavano da eredità del vecchio assolutismo sabaudo e da chiusure ed esclusivismi della borghesia moderata, e non solo di quella moderata, furono d'altra parte la condizione e lo strumento indispensabile perché su un paese arretrato e gravato da numerose tare potesse affermarsi la volontà di progresso politico e civile della minoranza risorgimentale. Del resto, nei decenni successivi, le istituzioni liberali si mostrarono sufficientemente elastiche da assorbire gradualmente istanze e forze nuove, sì che nel 1915 l'Italia era certo un paese socialmente più fuso, più moderno e più libero di quanto non fosse stato nei primi decenni dopo l'Unità."
Dal Risorgimento quell'Italia aveva ereditato e conservava il nuovo e più alto sentimento di sé che riempiva l'animo dei migliori fra gli italiani, convinti di poter avere nel quadro del mondo e della civiltà moderna una parte all'altezza della propria storia al fianco dei maggiori paesi d'Europa [nel 1867 a Londra "sesta potenza europea"]; l'identificazione dell'idea di nazione e di quella di libertà, sì che l'una appariva realizzazione concreta e sostegno dell'altra; il senso severo del bene pubblico e la coscienza del dovere verso il paese, avvertito e praticato con maggiore o minore purezza, ma indiscusso come supremo criterio regolativo delle coscienze. E la forza di quella tradizione e di quei valori fu testimoniata anche più tardi, durante il fascismo, quando, accanto a rivendicazioni di continuità mazziniana avanzate dal regime, la tradizione e l'ideale del Risorgimento ispirò la più nobile e la più colta opposizione liberale.
Con l'avvento del fascismo fu proprio l'antica unione di patria e libertà, di monarchia e parlamento, di senso nazionale e istituzioni liberali, di patriottismo e di solidarietà con la grande corrente della libertà moderna, che era stata caratteristica del Risorgimento ad essere spezzata. I due tronconi della vecchia unità risorgimentale vissero, in certo modo, nel ventennio, la loro vita separata e contrastante, e si impersonarono, da un lato nell'opposizione liberale, dall'altro nell'esasperazione nazionalistica del fascismo.
Nella "età della Costituente", che vide la ricostruzione in forma repubblicana e democratica del nostro Stato unitario, venne recuperata la più autentica eredità del Risorgimento con la riproposizione dell'identità tra idea di nazione e idea di libertà. Un binomio all'origine dei moti indipendentistici ottocenteschi, ma offuscato nei decenni successivi dalle avventure coloniali e dall'affermazione di un nazionalismo aggressivo e infine cancellato del tutto dall'affermazione del regime totalitario.
Che vi sia un diretto rapporto tra gli ideali ispiratori del Risorgimento e la Costituzione repubblicana risulta evidente quando esaminiamo la carta alla luce delle scelte che si imposero¬ nel processo di costruzione dello Stato unitario. Molte delle divisioni e dei conflitti che segnarono il periodo successivo all'Unità, come lo scontro tra Stato e Chiesa e la tensione tra le diverse concezioni del rapporto tra istituzioni, società ed individuo, trovarono infine nella Costituzione una sintesi equilibrata. Fu nella Costituzione repubblicana che si posero le premesse, realizzate solo in parte e a distanza di decenni, necessarie per correggere quella che era la stortura più grave dello Stato postunitario, la forzosa unificazione amministrativa e legislativa sul modello piemontese e la rigida centralizzazione adottata dopo il 1861. Non a caso la revisione dell'ordinamento dello Stato sulla base dell'autonomia riconosciuta alle regioni venne considerata l'innovazione più importante introdotta dalla Costituzione.
"Non meno importante, però, sulla linea predetta - ebbe a sottolineare Ettore Gallo - la solenne riaffermazione di quei fondamentali diritti di libertà per i quali soprattutto si è combattuta la lunga lotta antifascista: alludiamo alla libertà di pensiero, di arte, di scienza, di stampa, di associazione, di riunione, di religione, di sciopero ecc. che rappresentano i cardini essenziali ed indefettibili della democrazia", quelli tuttora basilari, per i quali gli spiriti migliori del Risorgimento si erano battuti e non di rado immolati.


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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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