Ma quale pace
Domenica 17 Luglio 2011 alle 11:30 | 0 commenti
Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2010, di Massimo Fini
Con Roberto Marchini i caduti italiani in Afghanistan sono saliti a 40. Cifra che impressiona ma che, in dieci anni di guerra, non è particolarmente rilevante. I danesi, con un contingente che è un quarto del nostro, ne hanno avuti altrettanti. Gli inglesi 364 su 9500 (stime ad aprile) cioè, proporzionalmente, il quintuplo degli italiani.
È la logica e oserei dire anche l'etica, della guerra dove lo speciale diritto di uccidere ha come contraltare la possibilità di essere, altrettanto legittimamente, uccisi. Per questo danno fastidio le consuete e ipocrite geremiadi istituzionali quando un soldato italiano muore in Afghanistan come se si trattasse di qualcosa di inaccettabile, di inesplicabile. Le Tv zoommano sul dolore dei genitori, delle mogli, dei fratelli, dei figli. Ma anche i Talebani e gli insorti hanno genitori, mogli, fratelli e figli e ne sono morti più di 30 mila. Poi ci sono circa 60 mila vittime civili afgane provocate in gran parte dai bombardamenti della Nato (almeno fino al 2009, secondo un rapporto Onu) o indirettamente dalla reazione degli insorti.
Per l'Occidente è come se gli afghani non fossero propriamente degli esseri umani come noi, come se i loro bambini fossero diversi dai nostri bambini. L'altra retorica che non sopporto è quella dei ‘bravi ragazzi', vogliosi solo di portare pace. Può darsi.
Ma non so se fosse proprio un ‘bravo ragazzo' il tenente colonnello Cristiano Congiu, protagonista e poi vittima di un incidente avvenuto il 4 giugno nella valle del Panshir dove si era recato con un'amica americana. Su uno stretto sentiero passava un carretto trainato da un asinello e condotto da un ragazzo, Mohtuadin. Dietro seguivano a piedi quattro o cinque uomini, tutti disarmati, cosa rara in Afghanistan. Erano contadini che si recavano al lavoro. Il carretto ha urtato inavvertitamente la donna facendola ruzzolare a terra. Ne è nato un diverbio. Congiu ha estratto la pistola e ha sparato ferendo gravemente il ragazzo all'addome (gli verrà asportato un rene all'ospedale di Anabah). Gli altri sono fuggiti verso il loro villaggio, ma sono tornati poco dopo, armati, e hanno freddato il Congiu con un colpo alla testa. I nostri giornali hanno titolato: "Militare italiano ucciso da criminali comuni".
È questa arroganza, è questo disprezzo per la vita altrui che ha minato la fiducia degli afghani. Noi italiani, credendo alla nostra retorica, pensiamo di essere benvoluti dalla popolazione. Il 26 settembre del 2006 tre Puma che stavano transitando per il villaggio di Chahar furono colpiti da un ordigno nascosto in un canale di scolo. Uno dei Puma cappotta facendo schizzar fuori gli occupanti. Il Caporal Maggiore Giorgio Langella muore sul colpo, gli altri si dibattono a terra, sanguinanti. Dalle case del villaggio escono decine di persone. La folla canta, balla, urla di gioia, fa oggetto di scherno i feriti. Una scena orribile. Che dice però che gli italiani sono odiati esattamente come tutti gli altri invasori, solo un gradino sotto gli americani che sono i più odiati di tutti.
Ogni volta che cade un soldato italiano in Afghanistan i ministri Frattini e La Russa si affrettano a ripetere, come un disco rotto, che "la missione continua" e il presidente Napolitano che "non possiamo venir meno ai nostri impegni internazionali". A quali impegni?
Sono dieci anni che la Nato è lì. Gli olandesi se ne sono andati nell'agosto del 2010, i canadesi, i francesi e i polacchi se la fileranno entro la fine del 2012. Gli stessi americani stanno trattando col Mullah Omar improvvisamente elevato al rango di ‘talebano buono'. E noi restiamo lì, come allocchi, ad ammazzare e a farci ammazzare senza un vero perché. Ed è questo - e non il numero - che rende atroce la morte dei nostri soldati.Accedi per inserire un commento
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