L'enigma di Vicenza e il diritto di raccontarlo da foresto. Per giunta londinese
Lunedi 5 Marzo 2012 alle 11:43 | 1 commenti
Da VicenzaPiù n. 229 in distribuzione
Vicenza, un enigma. Il direttore mi ha chiesto di condividere con i lettori in questo speciale le mie riflessioni anglosassonoidi sulla città berica. Ed anche il linguaggio anglosassonoide, perdonatemi. Città traduce due parole nostre: ‘city' e ‘town'. City significa che ci sia una sede vescovile - quindi Vicenza lo è - ma allo stesso momento vuol dire, nella coscienza collettiva, un posto grande, tipo Milano, Torino. E Vicenza in questo senso è ‘town'. Mi sento sempre un po' spaesato quando mia moglie dice ‘C'è tanta gente in città oggi'.
In una ‘city' si vive con un certo distacco dagli altri. Ed infatti, dopo cinque anni, certi miei vicini di casa mi danno del lei, e non sanno il mio nome. Però, una ‘city' avrebbe anche una propria università , un servizio vero e proprio di trasporti urbani, e così via.
E pertanto, quando giro nelle osterie del centro, l'anonimato cittadino non esiste proprio. «Lu non xe miga di qu» dicono con curiosità . Nonostante gli immigrati, i soldati americani, i turisti nordici, la fiera dell'oro, uno straniero fa sempre un po' colpo in centro storico. Una città con due facce, quella che vorrebbe essere al pari con l'Europa con un grande E. L'intelligencija ama parlare di ciò che succede al Louvre e al Covent Garden, mentre molti ‘poareti' non sono andati più lontano di Venezia. Ci si trova a parlare di Kandinski e Van Gogh, per poi cambiare ambiente e parlare della rivalità secolare tra la Caienna - l'antico sopranome per Saviabona e San Bortolo, chiamato così perché molti abitanti erano considerati emarginati, se non galeotti, e i francesi usavano mandare i loro galeotti alla Cayenne - e la gente rispettabile di Santa Lucia. «Go poco da spartire con chei di San Bortolo» mi disse uno che stranamente vive assieme ad una direttrice didattica che parla piuttosto di Kandinski.
Una città fredda, che almeno ha questo in comune con la mia città natale, ovverosia Londra: gli abitanti raramente invitano gli stranieri in casa. Vado spesso in Serbia, Slovacchia, Francia, e sono continuamente ospite. A Vicenza, dove vivo da un terzo di secolo, raramente. Questa diffidenza verso lo straniero, ed anche il meridionale, deriva, a mio avviso, proprio da questa identità schizofrenica, un po' di campagna, un po' di città . Mi ricordo durante un lettorato in Thiene che un ragazzo che mi parlava in dialetto mi diceva di essere pugliese.
«Come mai conosci anche dialetto», gli chiesi.
«I miei compagni mi vogliono bene, e me lo hanno insegnato», disse. Questo non succede in città . Ci sarebbe quasi una compiacenza nel parlare in un modo che gli altri non capiscano. E poi, quando avrai faticato ad imparare il dialetto anche tu, tutto cambia, sei percepito come uno di loro. Quando arrivai, bisogna dire che la lingua popolare era soltanto il dialetto. Il mio primo lavoro era di fare traslochi per gli Americani - quando si ha bisogno di ‘schei', certi compromessi si fanno. Portando un mobile su per le scale, il mio compagno di lavoro, che mi odiava cordialmente, mi disse: «Ciò, inglese, metioxo!» Ignaro ancora del dialetto, pensavo che mi dicesse: «Mettilo su!»
Io, che ero davanti, alzavo il mobile, ovviamente sforzando il mio compagno a piegarsi indietro.
«Go dito metioxò», seguito da vari abbinamenti del Signore con animali dialettali. Continuavo a rialzare il mobile, lui a piegarsi indietro, col rischio di cadere, cosa che ovviamente io non vedevo. Questa situazione grottesca, che sfiorò la rissa, mi girava in testa per settimane. E poi un giorno avevo una tazza di tè in mano, e mia moglie mi disse: «Metioxò un attimo». Ero un po' sbalordito. Ce l'avevo già in mano, come potevo metterlo su? E poi capii tutto. Dovevo metterlo giù, non su! Anni dopo, avendo faticosamente imparato il dialetto, verbi, vocaboli, tutto, mi sentivo molto più a mio agio. Una sera stavo facendo lezione di conversazione con un gruppo di ragazze. Stavamo parlando di generosità . Chiesi all'unica meridionale nel gruppo cosa pensava, in inglese ovviamente, ma non mi capiva. Finalmente, per tagliare corto, le dissi: «Anna, ti che te vien da xo, forse te o vedi in maniera diversa dae altre tose». Mi guardò con ferocia.
«Perché tu credi che i meridionali sono animali?» mi disse indispettita.
«Ma come sarebbe a dire?»
«Hai detto, tu che vieni da uno zoo», mi rispose. Per fortuna un'altra tosa le spiegò il malinteso, e sono rimasto in ottimi rapporti con Anna da allora in poi. E potrei sperare di averla aiutata nel suo matrimonio, poiché il suo simpaticissimo neo-marito Giuseppe è decisamente dialettofono!
Ma come mai questa schizofrenia vicentina sulla identità ? Nel grande mondo anglosassone Vicenza è conosciuta per il lavoro di un padovano. La parola ‘Palladian' va a descrivere qualunque edificio con arcate e colonne, e molti miei compatrioti attraversano Piazza dei Signori per ammirare l'originale. Vengono ad ammirare l'involucro rinascimentale, elegantissimo, di una città essenzialmente rustica. Vicenza, contestata dai feudi intorno, non ha una vera identità cittadina prima di entrare sotto la Serenissima. La quale non vuole essere meno di Firenze e delle altre città toscane. Così che si rivolgono al più grande architetto dell'epoca sul suolo proprio, e gli dicono:
«Palladio, va a quel paese trasandato, dove la basilica xè cascà xò, e lo rifarai da capo»
E il grande uomo arriva, e così fa. La facciata della basilica, palazzo del Capitaniato, il Monte dei Pegni, e così via. Viene fuori uno spettacolo rinascimentale, quasi da gareggiare con Firenze. Eleganza dappertutto.
«Com'è possibile che avete tanti ragazzi che si drogano, quando vivono circondati da tanta bellezza?» chiese mio zio quando venne a trovarmi a metà degli anni ottanta.
Questo è l'involucro. E sotto rimane quella città rurale, che per se stessa non sarebbe molto diversa da Schio, per esempio. Ma gli abitanti, particolarmente l'intelligencija, hanno la velleità di vedere l'ingannevole involucro, fingendo di non accorgersi del cuore rurale.
Personalmente, mi sento più comodo col cuore, le battute in dialetto, le gote nel centro coi giocatori di scopa che non con i parigini mancati.
Sperando di non fare arrabbiare chi li ama vivi, bramo l'esperienza vicentina assoluta, che in oltre trent'anni non ho mai potuto esaudire. Per pudore non lo dovrei dire, ho conosciuto, ma signori(e) veneziani(e), anche se un po' in rovina, ed anche qualche veronese matto. Dottori padovani in quantità . Invece non ho mai messo i miei denti su un succulento galon de gati...
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