La dignità del primo cinghialone
Domenica 7 Febbraio 2010 alle 09:06 | 0 commenti
Articolo pubblicato sul numero 181 di VicenzaPiù, in edicola a 1 euro e disponibile nei punti di distribuzione in città , oppure scaricabile in formato pdf dal box a destra
A vent'anni dalla scomparsa, ricordo "laterale" di Mariano Rumor
e di un'epoca in cui Vicenza dettava gli equilibri della politica nazionale
Vent'anni fa moriva, settantacinquenne, quello che a buon diritto può essere considerato l'icona della politica vicentina. Molto è stato scritto e detto, per celebrare la ricorrenza. Non posso che aggiungere il ricordo e le considerazioni personali di un osservatore marginale e in qualche modo prevenuto. Per noi ragazzi assetati di cambiamento, infatti, quelli come Mariano Rumor hanno a lungo incarnato la figura dei cinghialoni nella foresta del potere. Esseri, dunque, detestabili ancorché praticamente sconosciuti nei dettagli. In fondo, che ne sapevo io, di quel mio conterraneo tanto famoso?
Un macchinone carico di regali
Da piccolo l'avevo visto spesso arrivare con un macchinone di lusso, scuro, vagamente poliziesco. Lo accompagnava sempre come un'ombra Giovanni Romano, il suo fedele segretario. L'auto si fermava sul cancello di fianco a casa mia e dalle finestre delle case la gente s'affacciava incuriosita. Lui usciva velocemente dall'abitacolo, carico di pacchetti, regalandomi appena una fugace veduta. Mariano ci teneva a salutare Quintino, suo grande amico di gioventù. S'erano conosciuti nella parrocchia di Santo Stefano, da ragazzi e poi vicinissimi per il resto della vita. L'uno, in auge ai massimi livelli, aveva tenuto l'altro quasi come un consigliori. Tanto da tenerne a battesimo, Assunta, la secondogenita. In quelle festività anni '60 stava un po' con i bambini Gleria e Assunta, mia coetanea, ci raccontava sottovoce di un uomo gentile, persino timido. Tanto ci bastava, da piccoli.
Il Veneto della Balena Bianca
Quando divenne Ministro dell'Interno, nel 1963, io avevo 12 anni. Pensavo più alle figurine Panini che alla Democrazia Cristiana. Dal tono con cui mio padre ne parlava, tuttavia, intuivo che la persona era diventata sempre più importante ed ero orgoglioso che ogni tanto comparisse nella nostra piccola via Peschiera, allora avamposto di una periferia fatta di campi di grano e strade sterrate. Quando tuttavia, cinque anni dopo, lo nominarono Presidente del Consiglio, ero già un militante di destra pieno di ideali, un apprendista street fighting man. Per chi oggi ha diciott'anni riesce difficile immaginare una centralità di Vicenza nell'agone politico del Bel Paese. Da troppi anni i nostri eletti navigano nel mare dell'anonimato, confinati in qualche oscuro sottosegretariato o ammuffiti in Commissioni che lasciano tracce solo negli atti parlamentari. Il Veneto di allora, soprattutto il Veneto della Balena Bianca, era capace di determinare gli equilibri del potere. Anche se non produsse una vera e propria classe politica egemone, quel Nord Est aveva piantato nel cuore del Palazzo romano molti solidi paletti. Che si chiamavano Piccoli (con feudo nel Trentino), Rumor (con monopolio assoluto sull'area berica) e il giovane Toni Bisaglia (ras del padovano e del rodigino).
Una carriera folgorante
Prima di far parte del famoso asse, battezzato come PiRuBi, Mariano s'era messo in luce nei Governi De Gasperi, diventando sottosegretario all'Agricoltura nel 1951 e poi ministro nel medesimo dicastero. Una carriera folgorante, che venne a toccare l'apice nel biennio 68/70 quando fu a capo di ben tre successivi governi. Chiaro che dire Rumor, per noi, fosse quasi come evocare Belzebù. Rappresentava il potere nella sua peggiore espressione, capace di partenogenesi, autoreferenziale, immobile, una specie di blob magmatico. A Vicenza, in particolare, significava non soltanto occupare ogni più piccola porzione dell'Amministrazione pubblica, ma anche controllare l'informazione, l'economia, la pianificazione urbanistica e le linee di sviluppo sociale. Di sicuro, quelli come lui rappresentarono per la generazione degli "arrabbiati" forse l'unico territorio comune interclassista e interideologico.
L'assioma della Dc
La terribile stagione degli attentati che iniziò alla fine degli anni ‘60 e proseguì poi per una decina d'anni, lo vide sempre sotto i riflettori. Se penso a quei primi momenti, mi viene in mente il monitor di un vecchio Phonola e le immagini in bianco e nero di telegiornali con Citterich, Gavronsky, Stinchelli, Orlando e Fede. Era proprio lui l'uomo di punta dello Stato, quando alle quattro e mezza del pomeriggio del 12 dicembre 1969 un ordigno devastò il salone della Banca Nazionale dell'Agricoltura, uccidendo 12 persone, tra clienti ed impiegati. Mariano Rumor ebbe una strana sorte. Contemporaneamente obiettivo dei terroristi (stava nel mirino della bomba lanciata da Bertoli alla Questura di Milano) ma anche, dice qualcuno, tessitore delle oscure fila dei Servizi Segreti dell'epoca. Mio figlio, che è nato negli anni '80, fatica a capire come potesse funzionare cinquant'anni or sono la gestione del potere. Per rendergli accessibili le cose, ho dovuto architettare questo assioma: la Democrazia Cristiana guidava l'Italia, la corrente dorotea comandava nella DC e Rumor era il capo indiscusso dei dorotei.
Il capro espiatorio
Ma archiviarne in modo semplicistico la figura sarebbe un grave errore non solo in senso politico, ma anche storico e giornalistico. Come in un film, destinato ad essere rivisto di lì a poco con Bettino Craxi, a metterlo decisamente fuori gioco non fu tanto il "tradimento" di Toni, il suo pupillo, quanto il coinvolgimento nello scandalo delle tangenti pagate dalla Lockheed, multinazionale americana nel settore aerospaziale, interessata a piazzare in Italia un certo numero di C130. Uscito indenne dal polverone (che invece costò la condanna al socialdemocratico Tanassi), il politico vicentino, venne chiamato nel settembre di quello stesso 1977 a testimoniare al processo di Catanzaro sulla strage di Piazza Fontana. Fece una pessima figura, diciamolo, snocciolando i suoi "non ricordo", "non posso essere più preciso". Un atteggiamento che irritò la Corte, costringendola a rinviare a Milano gli atti relativi a quegli omissis, suoi e del sor Giulio Andreotti. Alla fine ne uscì pulito. Ma la "casta" l'aveva scaltramente eletto a capro espiatorio. Sì, proprio come avvenne con "Mani Pulite". I giudici italiani hanno una consolidata esperienza a fare da boia per interessi di Bottega (absit iniuria verbis!). La giustizia è come il timone, dove la si gira, va, diceva il filosofo taoista Lao Tze. In quel modo salvarono tutti la faccia, Zaccagnini, Moro, Scalfaro e compagnia cantando, garantendosi il maquillage di rispettabilità . Pagò Mariano per tutti, in silenzio.
L'uscita di scena
In realtà era tanto ladro e disonesto che per comprarsi la casetta in montagna dovette fare un mutuo alla Banca Popolare. Il Palazzo lo ricompensò con un blindatissimo seggio senatoriale, facendolo entrare anche come deputato al primo Parlamento Europeo, nel 1979. In realtà era diventato un emarginato, un uomo solo e deluso da quella politica che aveva eletto a ragione di vita. Ripensando al periodo infernale, confessò un giorno a don Adriano Toniolo: "Gli amici della Dc mi telefonavano tutti, ma per dirmi: lo sappiamo che sei innocente, ma dobbiamo votarti contro per disciplina di partito". I riflettori si spostarono su altri protagonisti e lui uscì di scena. Con molta dignità , va detto. Tornò così un po' più vicentino. Con qualche ora da dedicare alla "sua" Accademia Olimpica, alle amatissime lettere, al fratello Sebastiano, titolare di una storica tipografia in città . Io non lo incontrai più, nemmeno di sfuggita. Quintino Gleria era morto nel 1982, i ragazzi diventati grandi, troppo grandi. In via Peschiera non aveva ragione di tornarci. Ogni tanto una telefonata alla signora Stella, cui era rimasto molto legato. Andava invece sull'Altopiano di Asiago, per respirare aria pura. Stava con la sorella Teresa, passeggiava e si intratteneva con poche, selezionate persone, come Ermanno Olmi o il suo "nemico" carissimo Mario Rigoni Stern. Soffriva di disturbi cardiovascolari e la crisi del 22 gennaio 1990 gli fu fatale. Lo portarono al San Bortolo e finì per morire nella sua città , come forse avrebbe voluto. Erano le dieci e quaranta di sera. Al funerale ci fu la sfilata delle maschere, come si dice in gergo. Il presidente della repubblica Cossiga, quello del Consiglio Forlani, la commemorazione in Piazza dei Signori, il coccodrillo sul Giornale di Vicenza, il saluto del Sindaco Corazzin in Sala Bernarda (nella quale Rumor aveva mosso i primi passi come consigliere nell'immediato dopoguerra), il famedio ai Due Campanili tra Palladio e Fogazzaro. Ancora due anni, poi Tangentopoli avrebbe spazzato via quella specie di Bisanzio istituzionale: tanti saltimbanchi, nani, ballerine e cinghialoni, appunto. Ma anche alcuni uomini pubblici di grandi capacità . Gli ultimi veri professionisti della politica, nel senso migliore del termine. Il suo seggio a Palazzo Madama fu preso da tal Vielmo Duò, peone scudocrociato di Treviso. Con tutto il rispetto per quest'ultimo, ci vedo con gli occhi di oggi un segno ben preciso. "The times they are a changin", come cantava il buon vecchio Robert Zimmerman.
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