Industria 4.0, l'accordo delle università venete come nuova sfida del Nordest
Lunedi 3 Ottobre 2016 alle 10:13 | 0 commenti
Bentornato Nordest. L'accordo siglato a Padova tra le università di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige per il progetto Industria 4.0, vede rientrare in campo un'etichetta da tempo rimossa, al punto da indurre perfino i suoi ex fautori a giudicarla superata. Eppure quel marchio si era basato a lungo su un prodotto innovativo, che poteva contare su importanti risorse materiali e immateriali: tanto da indurre la sua voce più qualificata e lungimirante, Giorgio Lago, a candidarlo a laboratorio per la riforma di un Paese ingessato e afflosciato come l'Italia.
Purtroppo, un'utopia rimasta tale molto più per le debolezze interne che per le forze esterne, Roma in testa. Sarebbe naturalmente prematuro sostenere che siamo di fronte a un'inversione di tendenza. Ma l'intesa raggiunta rappresenta una "prima volta" in un certo senso storica: come ha giustamente sottolineato il presidente degli imprenditori veneti Roberto Zuccato, un fatto del genere non si era mai verificato in passato, neanche nella stagione nordestina più rampante. Ed è ancora più significativo che la novità parta dal mondo accademico, che in quest'area del Paese ha fin qui risentito di un singolare quanto autolesionista strabismo: l'eccellenza internazionale della sua offerta di ricerca e didattica, mortificata da una deteriore rivalità di campanile che ha stroncato sul nascere ogni tentativo di fare sistema. A maggior ragione è importante che l'inedito accordo faccia perno sul rapporto tra università e impresa: perché mai come oggi una competizione divenuta planetaria si gioca sul ruolo e la qualità dei luoghi del sapere. Certo, la prudenza è di rigore. Il progetto 4.0 nasce con risorse limitate (100 milioni da ripartire tra cinque cabine di regia); il sistema universitario rimane soffocato da troppi vincoli sia economici che normativi; ogni riforma in Italia conosce un parto travagliato, e non di rado subisce traumatici aborti; la crisi in atto esercita una pesante ipoteca su un Paese come il nostro, che cresceva meno degli altri già prima e continua a farlo adesso. Ma l'accordo a Nordest rappresenta una significativa inversione di tendenza per metodo e per contenuti: ci sono tutte le premesse per una ricaduta di peso nel medio-lungo termine, anche perché si tratta di un'area (il Veneto in particolare) dove gli investimenti pubblici e privati in ricerca sono sempre stati scarsi e inadeguati, comunque inferiori rispetto a realtà vicine e similari come la Lombardia e l'Emilia. È essenziale tuttavia considerarla una premessa, non la risposta; un incentivo a cambiare, non il cambiamento. Il salto di qualità può avvenire solo se e quando l'Italia diventerà un Paese affrancato dalle troppe zavorre che l'appesantiscono; se e quando l'istruzione e la formazione verranno considerate strategiche per lo sviluppo; se e quando il mondo delle imprese saprà mettere mano non a una ristrutturazione ma a un'autentica rivoluzione di ciò che produce. Tutte condizioni che un imprenditore anziano di anagrafe ma giovane di idee come Mario Carraro va sollecitando da tempo, senza peraltro registrare una grande audience. Non mancano certo, né nelle università né nelle aziende, gli uomini per imboccare questo faticoso ma indispensabile cammino; l'importante è che non rimangano soli, e che attorno al progetto si costruisca e si cementi un vasto consenso; anche perché i pasdarà n della conservazione sono tutt'altro che dormienti e rassegnati. Da qui passa anche una promettente ma forse ultima chance per un Nordest capace di andare oltre i confini della geografia e le eredità della storia. Altrimenti, bisognerà cambiare spartito: anziché intonare le solite vecchie litanìe contro Roma, sarà il caso di affidarsi ad un autoctono, malinconico, ultimativo de profundis.
di Francesco Jori da Il Mattino di Padova
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