Gianni Mura: "Rimpiango il calcio di un tempo"
Mercoledi 9 Dicembre 2009 alle 21:10 | 0 commenti
Articolo pubblicato sul numero 174 di VicenzaPiù, in edicola a 1 euro e ancora più facile da trovare, grazie alla tiratura aumentata, anche nei punti di distribuzione in città , tra cui quelli indicati nel box a destra da cui è anche possibile scaricare la versione pdf.
Lo confesso, il decalogo del giornalista sportivo dell'USSI non l'avevo ancora letto. Sicuramente una leggerezza. All'articolo 4 avrei scoperto che "Il giornalista sportivo tiene una condotta irreprensibile durante lo svolgimento di avvenimenti che segue professionalmente". Forse, da aspirante pubblicista "tardivo" (la tessera dell'Ordine, un sogno mai coronato in gioventù, è tornato in età adulta), non sono ancora sufficientemente "dentro" la professione. Così all'undicesimo minuto del primo tempo, in Padova - Vicenza, sabato scorso, la mia prima volta con accredito-stampa, al diagonale di Sestu finito prima sul palo alla destra di Agliardi, e poi a gonfiare la rete per lo zero a uno, ho esultato. Ho alzato le braccia, gridando "gol" con l'istinto del bambino. Ma non era il mio Menti d'infanzia, quello che avevo intorno, Paolo Rossi non ci gioca più da un pezzo. Un giornale appallottolato mi è arrivato in viso (sarà pure carta ma fa male, dannazione!), sferzante come un secchio d'acqua gelido.
Non me l'aspettavo. Lo sguardo alle poltroncine di tribuna alla mia destra non lasciava adito a dubbi, ce l'avevano con me. Il lanciatore di giornali e altri sei o sette tifosi padovani imbufaliti stavano rivolgendo epiteti irriferibili a me e al mio vicino giornalista, correo di vilipendio della bandiera biancoscudata. Epiteti diventati vomito di insulti e minacce qualche istante dopo, al pareggio padovano. Tutto nell'indifferenza e tolleranza generale, di addetti ai lavori, steward e pubblico pagante, con l'unica eccezione di un cronista locale che si adoperava per riportare la calma. Lentamente, il corso degli eventi in campo spostava sul discusso arbitro Saccani l'attenzione degli infuocati patavini. Era sufficiente un atteggiamento più distaccato in occasione della seconda rete biancorossa e un po' di prudenza nel linguaggio per portare a casa la faccia, oltre al pc e al cellulare, a rischio sul bombardamento di carta.
Ma la testa continuava a rimuginare, la gola era secca, le mani sudate per lo spavento. Cercavo una spiegazione a tanta cattiveria, che andava al di là della frustrazione per il gol subito. E nel contempo ripensavo all'origine della mia esultanza istintiva, legata alle emozioni del passato. Quelle regalate da una parata di Bardin o di Ernestone Galli, una fuga di Cerilli o di Filippi, un gol di Rossi, un tiro da lontano di Guidetti. O al Dukla Praga, ben prima del Chelsea, Rivera nel suo ultimo campionato, Zoff, mito della mia infanzia, visto da dietro la porta per studiarne le movenze, i trentamila con la Juve, le partite seguite in curva nord, mescolato a sostenitori con altre bandiere. O, ancora, Savoini che non chiama il mio nome, nella terza selezione della leva calcistica 1966 cui partecipo (ne ha sempre capito di calcio), sul campo dell'antistadio che oggi è un parcheggio. Escluso, le lacrime tornando a casa, non sarò mai calciatore. L'emozione lascia il segno e te la porti dentro. Davanti all'ex Trivellato, un tempo luogo d'appuntamento prima di entrare allo stadio, oggi ci sono le gabbie per i tifosi-animali. Per entrare al Menti bisogna tirar fuori la carta d'identità tre volte, prima di passare i tornelli. Il calcio è cambiato, ma malgrado tutto l'emozione resta dentro, la passione per quel rettangolo d'erba che ha i colori e gli odori dell'infanzia dura ancora. E se si esulta è per riabbracciare un bambino, prima che per festeggiare un gol. Non credo che l'anonimo e ancora infuriato tifoso padovano, cui nell'intervallo cercavo di spiegare tutto questo, leggerà mai le mie parole, né credo gli interessi granché farlo. "A Padova non devi gioire - ripeteva - così come a Vicenza non posso farlo io, prenderei un pugno in faccia". A nulla valeva l'invito a gustare il ritorno al mio fianco, nella tribuna del Menti, al riparo da ogni violenza. A casa bastava una rapida carrellata su internet per riscontrare decine di episodi analoghi al mio (alcuni corredati di immagini Youtube), che certificano che il calcio oggi è questo, c'è "casa e fuori casa", per definirla alla maniera del grande Gianni Mura (cui abbiamo chiesto un parere, vedi intervista a fianco), c'è amico e nemico. Tornerò allo stadio, se sarò in tribuna stampa ci andrò con maggiore contegno. Ma non posso smettere di pensare che non è un bel calcio quello dove non si ride più, dove la tolleranza ed il rispetto ci sono sì, ma per gli imbecilli. A volte fa peggio il silenzio assordante dei tanti, rispetto alla violenza verbale dei pochi. E non solo allo stadio.
Gianni Mura risponde al telefono e ne ho già soggezione. Al maestro (dai pochissimi allievi all'altezza, purtroppo) dell'informazione sportiva italiana racconto l'episodio dell'Euganeo e lui chiarisce subito il suo pensiero.
"Se parliamo di esultanza in tribuna stampa lei ha sbagliato, glielo dice uno che ha 64 anni e da alcuni decenni le frequenta. Sono dell'opinione che per chi svolge un compito da giornalista non sia professionale manifestare il proprio tifo con espressioni di entusiasmo. Anche se aggiungo che, al di là dei regolamenti dell'Ussi, i giornalisti sportivi dovrebbero far valere certe regole anche quando assistono alle partite della Nazionale. Ho condiviso e condivido la tribuna stampa con colleghi di cui mi vergogno, giornalisti di testate nazionali che, ad esempio, al gol di Del Piero ai Mondiali di Germania esultavano saltando e portando la mano sul gomito. Insomma, oggi i giornalisti-tifosi (che hanno l'alibi di dover crescere senza che nessuno spieghi loro il mestiere) sono fin troppi e credo sia corretto che si torni a fare il proprio lavoro estraniandosi dal tifo".
Ma può essere considerato "tifo" anche una semplice esultanza dopo un gol?
"Il problema è come viene percepita quell'esultanza. Palladino (giocatore del Genoa che ha segnato nel derby della scorsa settimana, ndr) che esulta sotto la curva della Sampdoria scatena le ire della curva perché non rispetta e anzi acuisce la sofferenza di chi considera di vivere, in quel momento, l'elaborazione di un "lutto".
C'è stato un tempo in cui si poteva andare allo stadio insieme al tifoso della squadra avversaria.
"Ed io lo rimpiango, quel tempo, l'esultanza poteva essere comune, l'idea di curve separate nemmeno esisteva, si entrava allo stadio insieme e ci si sedeva accanto, milanisti ed interisti. Rimpiango le trattorie aperte, che si frequentavano prima della partita e che sul tifoso avversario facevano guadagno. Oggi le trattorie restano chiuse per paura".
Tornare indietro, a suo avviso, è possibile?
"Quel modo di andare allo stadio non è più possibile e non lo sarà fino a quando saremo ancorati al pensiero ultrà , che ha portato ad estremizzare il concetto casa-fuori casa. Sostanzialmente chi viene da fuori è mio nemico, non solo alla partita di calcio, ma anche in altri ambiti; basti pensare all'atteggiamento nei confronti degli extracomunitari. Purtroppo questo modo di pensare si è radicato non solo in curva, ma in ogni altro settore dello stadio. Trovo che spesso, l'unica differenza tra tribuna e curva stia nel prezzo del biglietto, per il resto il tifo becero si trova dall'una e dall'altra parte".
A.R.
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