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Fast fashion e moda sostenibile: qualche spunto di riflessione verso lo slow fashion

Di Redazione VicenzaPiù Domenica 6 Dicembre 2015 alle 19:03 | 0 commenti

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di Sara Battilana (leggi l'articolo e guarda le altre foto anche su VicenzaPiù Magazine n. 280 in edicola oppure online per gli abbonati)

I gusti e le mode cambiano velocemente e i cosiddetti brand fast fashion, letteralmente i marchi di “moda veloce”, ci vengono incontro con capi poco costosi e perfettamente in linea con i trend del momento. Il prezzo da pagare, però, rischia di essere molto più alto di quello che troviamo sul cartellino.

Il modello fast fashion si riferisce a quei brand e a quelle catene di rivendita in grado di abbracciare velocemente il cambiamento nei gusti dei consumatori, prendendo ispirazione dalle passerelle, dallo streetstyle o dai look delle celebrità e portando sul mercato lo stile del momento in tempi rapidi e a prezzi contenuti.

Il sistema è basato sul modello di produzione “a risposta veloce” nato negli anni ‘80 e diffuso durante i ‘90, in un periodo in cui i brand cominciavano a ricercare nuovi modi per aumentare i propri profitti e durante il quale la crescente globalizzazione gettava le fondamenta per la dislocazione della produzione in paesi dai costi del lavoro fortemente inferiori a quelli europei.

Dall’altra parte, abituati a produrre due collezioni principali all’anno, i brand affermati si ritrovano ad affrontare un buon grado di pressione nel tentativo di rimanere al passo con una domanda che cambia a ritmi settimanali e non più mensili.

Il marchio Zara, ad esempio, propone settimanalmente nuovi stili attraverso una forte ottimizzazione dei processi che vanno dal design alla produzione, fino alla distribuzione nei propri store; allo stesso modo Bershka, H&M, Topshop e Pull&Bear sono alcuni tra gli esempi di brand conosciuti e diffusi che fanno della velocità e dei prezzi stracciati i propri punti di forza.

Con una produzione di abbigliamento e accessori molto veloce e a basso costo, il modello fast fashion si rivela profittevole per i brand e conveniente per i consumatori, rischiando però di non essere sostenibile in termini etici e di impatto ambientale.

Nel 2013 l’incidente alla fabbrica di Rana Plaza in Bangladesh, stabilimento che produceva abbigliamento per marchi molto conosciuti, ha portato l’attenzione sulla tendenza alla moda “usa e getta” e su quanto questa concezione dell’abbigliamento possa potenzialmente alimentare un sistema che si basa sullo sfruttamento di manodopera a discapito dei diritti umani, sulla scarsa attenzione verso l’inquinamento chimico, le emissioni di CO2 e lo spreco d’acqua.

L’imperativo è: di più, più velocemente, il più economicamente possibile.

I dati della moda usa e getta mostrano una crescita pari a più del 400% rispetto a 20 anni fa: oggi una donna possiede in media quattro volte la quantità di vestiti rispetto agli anni ‘80 e durante l’arco di un anno una buona quantità di questi capi vengono gettati con conseguenti maggiori costi di smaltimento e dcrescenti anni all’ambiente.

A questo punto si tratta di un circolo vizioso: se da una parte un consumo più informato ed etico potrebbe fare la differenza, al tempo stesso una produzione sostenibile, attenta all’ambiente e al benessere dei lavoratori non sarebbe in grado di offrire prezzi così competitivi. In sostanza una t-shirt prodotta in questo modo non potrà mai costare solo cinque Euro, dall’altra parte non tutti i consumatori potrebbero permettersi i costi di un capo di qualità superiore.

Eppure i passi verso un’industria della moda più sostenibile ci sono e si vedono, innanzitutto attraverso la varietà di “materiale” disponibile per informare ed educare il consumatore (tra i più recenti, il film “The True Cost” di Andrew Morgan e il libro “Sustainable Fashion: Past, Present and Future” di Jennifer Farley Gordon e Colleen Hill).

I segnali arrivano anche da brand affermati ed emergenti.

Sono sempre di più i marchi che fondano la propria attività su un’offerta sostenibile: cotone organico, materiali durevoli e di qualità, trasparenza sulla filiera produttiva e impegno verso l’ambiente e i lavoratori.

Quest’anno H&M, tra i brand che hanno accettato la sfida di un fast fashion più etico e sostenibile: ha lanciato, infatti, “Close The Loop”, una linea di capi in denim composti per il 20% di cotone riciclato, e ha dichiarato l’intento di aumentare la percentuale di utilizzo di fibre riciclate attraverso un miglioramento delle tecnologie impiegate nella produzione.

Come per lo Slow Food e la lotta alla frenesia e alla scarsa qualità dei fast food, c’è la possibilità che il mondo si stia progressivamente spostando verso lo slow fashion, un concetto di moda etica, ragionata e sostenibile che coinvolge i sistemi produttivi e la coscienza dei consumatori.

Lasciamo che la moda continui a stupire ed emozionare, non a distruggere e impoverire.


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Giovedi 27 Dicembre 2018 alle 17:38 da Luciano Parolin (Luciano)
In Panettone e ruspe, Comitato Albera al cantiere della Bretella. Rolando: "rispettare il cronoprogramma"
Caro fratuck, conosco molto bene la zona, il percorso della bretella, la situazione dei cittadini, abito in Viale Trento. A partire dal 2003 ho partecipato al Comitato di Maddalene pro bretella, e a riunioni propositive per apportare modifiche al progetto. Numerose mie foto del territorio sono arrivate a Roma, altri miei interventi (non graditi dalla Sx) sono stati pubblicati dal GdV, assieme ad altri come Ciro Asproso, ora favorevole alla bretella. Ho partecipato alla raccolta firme per la chiusura della strada x 5 giorni eseguita dal Sindaco Hullwech per sforamento 180 Micro/g. Pertanto come impegno per la tematica sono apposto con la coscienza. Ora il Progetto è partito, fine! Voglio dire che la nuova Giunta "comunale" non c'entra più. L'opera sarà "malauguratamente" eseguita, ma non con il mio placet. Il Consigliere Comunale dovrebbe capire che la campagna elettorale è finita, con buona pace di tutti. Quello che invece dovrebbe interessare è la proprietà della strada, dall'uscita autostradale Ovest, sino alla Rotatoria dell'Albara, vi sono tre possessori: Autostrade SpA; La Provincia, il Comune. Come la mettiamo per il futuro ? I costi, da 50 sono saliti a 100 milioni di € come dire 20 milioni a KM (!) da non credere. Comunque si farà. Ma nessuno canti Vittoria, anzi meglio non farne un ulteriore fatto "partitico" per questioni elettorali o di seggio. Se mi manda la sua mail, sono disponibile ad inviare i documenti e le foto sopra descritte. Con ossequi, Luciano Parolin [email protected]
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